Le avventure del Sciur Pibìn (3)
«Non avrei mai creduto che una porcheria simile fosse possibile qui da noi!» Barba Brocha irrompe gesticolando furente nella mia cucina, tira quella lettera anonima sul tavolo, si lascia cadere su una sedia: «Se non l’avessi letta con i miei occhi…!» Vedere lo sconcerto di Brocha mi ricorda amaramente la mia propria sorpresa nel ricevere quell’infame scartoffia nel giugno del 2006, risveglia dolorosamente persino il rancore che mi era bollito dentro per molto tempo.
Brocha, lui, continua a scuotere la testa pelata. Dice che, prima che lui se ne andasse via dalla Valle verso fine 1999, l’aria sociale che soffiava era ancora respirabile, il clima politico sano. Cerca di capire come mai la situazione si era deteriorata al punto da rendere possibili tali schifezze. Vuole che io gli spieghi, che gli parli di chi dettava la legge agli inizi del 21esimo secolo. Allora gli parlo di ciò che avevo vissuto in quell’anno 2006 e degli anni precedenti.
A quei tempi, in Valle, tutto ruotava intorno al sciur Pibìn. Stranamente però, all’infuori di dove aveva visto il sole del mondo, nessuno sapeva granché di certo su di lui. Infatti il sciur Pibìn non abitava nemmeno in Valle. Che vi soggiornasse di tanto in tanto, ne prevaleva nondimeno l’impressione che sbrigava le faccende della sua carica a distanza. Eppure, anche se si vedeva quasi mai, il suo zampino lo si percepiva in tutti gli affari in corso. D’altra parte, sull’ubicazione del suo domicilio fiscale circolavano varie ipotesi e la gente vacillava da un scenario all’altro. Uno di questi suggeriva che solo una minima frazione delle sue imposte aumentasse l’introito fiscale valligiano. Ma chi voleva fare chiarezza in questo garbuglio, aveva a che fare con i guardiani della protezione dei dati! Insomma, una situazione globalmente nebulosa, quella del sciur Pibìn…
A questo punto, Brocha si toglie la pipa da fra i denti, mi guarda negli occhi come se non riuscisse a credermi: «Negli anni 70 e 80, quando facevo ancora politica in Valle, il popolo non avrebbe mai ammesso una simile anomalia, mai e poi mai, te lo giuro…!»
Cosa posso dirgli? Il sciur Pibìn pretendeva che lui non ne aveva mai voluto sapere di quella carica. Che «quelli in Valle» lo avevano chiamato, pregato insistentemente. Che lui aveva allora accettato di sacrificarsi per il bene del popolo, ma non senza mettere sul tavolo la sua irrinunciabile condizione di non dover vivere in paese fra la gente! A chi gli rinfacciava quella boria ribatteva seccamente che lui si metteva generosamente a disposizione e perciò non aveva conti da rendere a nessuno! Sentire il sciur Pibìn parlare della sua vocazione alla carica pubblica echeggiava l’allora presidente statunitense, un certo Bush mi pare, che dichiarava senz’altro essere stato chiamato alla missione suprema dall’Onnipotente in persona, e perciò non dover rispondere a nessun’altro del suo fare e disfare…
La gente naturalmente avrebbe voluto mettergli la mano sopra al sciur Pibìn, parlargli dei suoi problemi, dirgli le quattro verità. La gente gliene voleva. Il sciur Pibìn ne rideva. S’illudeva del contrario, forse perchè lui si sapeva sovente in Valle, presenziando inaugurazioni, vernici e pose della prima pietra. E poi le feste popolari, a quelle sì che c’era il sciur Pibìn, ma per divertirsi, non per occuparsi dei problemucci della gente. Come alla quarta edizione di quella memorabile «strozComida» del 2 luglio 2006. Verso le undici mi trovavo al Cogoz. Inaspettatamente, mio amico Güstin mi sussurra: «Lescià la Corte Nasiafiar!» Arriva allora un’enorme fiumana di persone, tutte vestite a festa. In testa il sciur Pibìn, deliziandosi degli inchini e saluti di coloro che si scansano per lasciarlo passare. Segue la Corte con i vassalli di SanCarlo, alCrot, Prada, Cölögna, LiCurt e LaRösa. Come il sciur Pibìn, tutti i signori rigorosamente accompagnati da moglie e figli. L’immagine conta, quella della famiglia felice e unita è essenziale! La lunga processione si trascina fino al Meschino. Poi forma una fila indiana da Caneu a Plaz che si impegna a non essere d’intralcio agli altri milleduecento partecipanti a quel giro gastro-enologico del lago. Si diceva che erano stati ben cinquanta quelli della Corte Nasiafiar. C’era invece quel burlone che sosteneva aver contato esattamente settant’un individui, ammettendo però aver tenuto conto anche dei servi e delle serve come pure dei cinque cagnolini delle signore.
Brocha sorride sottinteso, poi, pensieroso, osserva: «Ciò che mi racconti non spiega tutto. Dovremo riparlarne. M’interessa perchè voglio capire la nostra gente di quei tempi passati. Ci vediamo!» e mi lascia solo con i miei foglietti…
Redatto da Dino Beti di Panìsc – dino.beti@bluewin.ch