Ahmir supera il confine in tre passi
Ventun anni, pelle d’ebano, capelli nè corti nè lunghi. Ahmir pensava fosse stato da stupidi, ma altrettanto necessario, vendere quella baracca lasciatagli dal padre morente per finanziarsi il viaggio in mare aperto verso le coste italiane.
Il primo passo d’altronde era quello, e ne erano consapevoli tutti a Arshawal, il paesino – dove la famiglia di Ahmir dopo anni di nomadismo – si era stabilita in maniera provvisoriamente definitiva. Il momento della decisione, della preparazione, potrebbe ora venir ricordato come un primo giro di chiave in una serratura arrugginita, dove va messa della forza ulteriore, il sacrificio, nel tentativo di aprire le porte a un futuro perlomeno decente, tutto da immaginare. Si trattava di un passo complicato soprattutto dalla prospettiva della consapevolezza, della presa di coscienza, dell’arresa all’evidenza. Ahmir ne aveva discusso più di una volta con fratelli e cugini, gente della sua generazione, gli unici a poter in un qualche modo capire ciò che gli frullava per la testa. La necessità, quel bisogno di trovare delle maledette conferme al di là del confine fra sud e nord, fra povertà e ricchezza, fra deserto e cemento, fra Algeria ed Italia, era divenuta ormai un’ossessione incontenibile che andava affrontata a viso aperto.
Niente più farse dunque, una sola frase sbattuta in faccia alla madre durante una cena dove la consuetudine fu scossa da cinque durissime parole “la mia vita fa schifo”, e un pugno sul tavolo: “tocc”.
In quel momento credo sarebbe stato necessario perlomeno tentare di vedere oltre la freddezza di un giovane ragazzo, ne andava infine del futuro di un popolo intero. Non vi era però la convinzione per farlo, l’incertezza stava ormai intaccando anche le coscienze più radicate e quell’immagine di Zidane appesa sopra l’uscio, altro non faceva che distrarre la riflessione. Credo fu questo l’attimo che portò Ahmir ad avviarsi davvero verso il confine. Si trattò di un’affermazione, quella rivolta alla giovane madre, che esaltava rabbia e delusione, una constatazione dovuta dalla quale passare, pagando il giusto dazio ovviamente, per poter almeno in parte giustificare una partenza immediata. Come se in un qualche modo andasse certificato di fronte ad autorevole e vicina presenza – e il figlio amava la madre – che qualcosa non funzionava, che era arrivata l’ora di smettere di mentire di fronte all’avanzare di condizioni precarie divenute insopportabili.
Bisognava oltrepassare un primo ostacolo, superare una prima linea di divisione. Mi riferisco a quel ponte virtuale fra l’accettare in maniera verosimilmente passiva gli eventi della propria vita, schiavi della convinzione che non saremo mai noi i veri padroni del nostro destino, e la reazione diretta, forte, decisa. Tanto vale passare dalla parte di chi pensa che fatalità o meno, la vita finirà con la morte anche qualora tentassimo di non farci trovare nel momento in cui ci dovesse venire a cercare. Tanto vale rischiare, pensava Ahmir.
Redatto da Josy Battaglia – jobatta@bluemail.ch