E se fosse il caso, quali le conseguenze?
Arrivava a notte fonda con una Moto Guzzi “Galletto” prima di mezzanotte.
La parcheggiava davanti alla lavanderia di mio zio e avevamo l’ordine assoluto di non toccarla; e noi ragazzi lì a rimirare le grandi ruote da bicicletta troppo cresciuta e il suo scudo in latta.
Era un uomo basso di statura, magro, gambe da cavallerizzo: altamente nervoso. Appena poteva, dentro una sigaretta in bocca. Delle FIB, pacchetto rosso senza filtro, roba da torcere i polmoni. Ne andava matto. Avevamo un grande rispetto di quest’uomo: era rientrato a piedi dalla Campagna di Russia dell’Esercito Italiano (am gava sempri fam e am mastigava quaranta volti el bucun de pan…). Durante il viaggio si era tuffato da un ponte, tutto vestito per salvare un bambino che stava per annegare nel fiume. L’avevano decorato al valor civile. Bestemmiava che tagliava l’aria e sento ancora adesso il fischio di diniego di mio nonno.“Cusa völal quel lì…?” Però smetteva. Era uno specialista delle “brascedeli de segal”. Era “speciale”, pure se lo ripenso in questo momento.
Se mi concentro, ne sento ancora il profumo.
“L’e tütt lì, tanta segal, poca bianca e te da es svelt cume ‘n gatt a infornaa! …” E giù una bestemmia mentre rideva sotto i baffi ormai già grigi… Brascedela e “el Caaarlu”, per noi ragazzi erano tutto! Tra l’altro, a volte, ci comprava con una manata di anice.
Che fregatura: le facevano pure a Poschiavo, a San Carlo e la Fausta a Sumasassa e tutti con il forno a legna. Almeno così buone. Questa faccenda non riuscivo a mandarla giù e cercavo scuse per non dover cambiare opinione: avevo però semplicemente finito gli argomenti per sostenere la mia idea. Quando seppi che, pure i francesi usavano la forma a ciambella e la tagliavano non a spicchi, ma dopo averne tagliato un quarto, lo posavano dritto sul tavolo per affettarlo in verticale, mi si ruppe un mondo. Sapevano come preparare le fette piatte da una ciambella.
Certo, non bisogna studiare geometria tridimensionale per capire che il pane lo puoi cucinare rotondo, a ciambella, lungo, in cassetta, a semicerchio, attorcigliato o combinazioni delle forme appena accennate. I parametri sono dati e non ci si sfugge.
Di questo passo, un po’ alla volta, capii come mai la pizza siciliana è fatta di pane, cipolle, olive nere, pecorino e olio d’oliva. Perché a Livigno si facevano salami con le rape, in Sardegna il pane raffermo con il brodo di capra, noi i capunett e gli Svizzeri tedeschi, le Rösti. Si prendeva quanto c’era a disposizione e a buon mercato. Il principio era comunque adattato al proprio territorio.
Da questo momento la storiella che vi ho raccontato ci ha portato a un punto dove diventa interessante farci sopra qualche ragionamento.
Se ci pensiamo bene, siamo tutti in qualche modo singolari speciali e differenti. Per lo meno chi non si è dato, negli ultimi tempi, a un consumismo smodato con il relativo appiattimento delle proprie peculiarità diventando in un puro consumatore. Questo vale non solo per il modo di mangiare ma nel modo di fare e di essere.
L’esserne cosciente ci fa diventare d’un tratto più umili: almeno a livello intellettuale.
Da una parte.
Dall’altra però, siamo molto uguali. In un certo senso si cerca di avanzare in modo pragmatico, possibilmente organizzato e preferire, forse per comodità, quanto già conosciamo di persona: uomini e donne, approcci, meccanismi, strutture e ragionamenti. Da questo nasce una certa diffidenza per il diverso: dalle religioni, lingue, partiti, minoranze, maggioranze, nel mangiare, nel vestire, nel sesso, di fronte alla natura e al creato, verso i poveri, verso i ricchi, da tutti quelli che chiamiamo gli “altri”? Potrebbe anche essere.
Questo vorrebbe dire, se prendiamo una certa distanza dall’esempio appena fatto, che le nostre attese, i nostri sogni sono in buona parte i sogni e le attese degli altri: da noi chiamati pure “il prossimo”. Basta scoprirle, queste speranze, per diventare da pochi e speciali, molti e speciali. Tutto quanto creato è già di “per se” singolare, anzi miracoloso. Ma solo se ci si chiama, si discute, ci si confronta e si fanno delle scelte condivise.
Andiamo avanti: abbiamo appena votato a livello federale i nostri rappresentanti grigionesi. Spero semplicemente che i prescelti si ricordino delle nostre peculiarità, dei nostri sogni e bisogni. Va loro fatto presente che i temi a livello nazionale e internazionale hanno già i loro rappresentanti con le relative potentissime lobby. Pensiamo alle grandi industrie, ai sindacati, ai produttori di energia, ai ricercatori, ai commercianti, agli artigiani, ai rappresentanti della sanità, delle assicurazioni, delle banche, dell’ecologia. Tutti questi e altri ancora sono in grado di fornire argomenti, idee, pubblicità, presenza nei media ma, con monete di scambio, ma soprattutto, con dei numeri: quelli dei voti.
È esattamente al contrario di quanto succede nella realtà delle zone periferiche, di confine, di montagna, allacciati in qualche modo, con presenze economiche non sempre ben distribuite, con le piramidi demografiche rovesciate a testa in giù.
Ci si accorge però, di essere in buona compagnia, sia a livello Cantonale sia nella nostra Confederazione. Orbene questi “altri”, sono ora da cercare e trovare. Per permettere che le peculiarità trovino forza e rappresentanza al Centro. Realistico? Dipende molto dalla statura di chi ci rappresenta.
Le esclusività, di solito, non portano voti ma le alleanze fra chi le possiede, fanno miracoli.
Quest’atteggiamento potrebbe essere valido anche a livello di Valposchiavo quando ci sceglieremo o ci saranno imposti i futuri amici di cordata. Occhio alle peculiarità, ai sogni e ai bisogni.
Penso alla riforma territoriale nel nostro Cantone.
Andiamo dunque a cercare tutti quelli che cuociono “brascideli da segal” anche se noi, in cuore, giustamente o no, crederemo sempre di sapere, quali sono le migliori.
Fine ottobre 2011
E questa è la quarta moneta.