L’ultimo Tresciadru

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Gottardo Bontognali ci fa riscoprire un mestiere del secolo scorso
Se ti hanno dato del “tresciadru” e ti sei sempre chiesto cosa significasse… ecco – finalmente – una risposta che ti può soddisfare.
Leggi anche la recensione di Guido Lardi.




“La trescia era parte essenziale dell’inventario degli attrezzi nostrani di quei tempi. Era per conseguenza oggetto di particolare attenzione da parte del proprietario (…)”

La trescia è la denominazione dialettale poschiavina di fune, un oggetto particolarmente importante per i contadini e vetturini del secolo scorso. Serviva infatti a legare i carichi di fieno, la legna e altro ancora.

Il valposchiavino Gottardo Bontognali, in un maneggevole libro di poche ma densissime pagine corredate da diverse immagini, ci riporta agli anni in cui la trescia era di uso quotidiano. Ci spiega la sua realizzazione, il suo utilizzo e chi erano e da dove venivano i suoi fabbricanti. Un titolo che rimanda a Samurai e Mohicani, e dunque a culture lontane, ci permette invece di rispolverare le nostre radici.

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“Il ricordo di (…) quel tempo indimenticabile dei nostri villaggi polverosi, assopiti nella caldura di luglio, immacolati dopo una generosa nevata di dicembre (…) contrade ove gli abitanti sapevan far di tutto, con dedizione, con calma e umiltà (…)”


La recensione di Guido Lardi


Gottardo Bontognali presenta una nuova pubblicazione degna d’attenzione

Gottardo Bontognali, poschiavino (di Prada) autentico, ma trapiantato per ragioni professionali nella Svizzera francese, mai ha dimenticato le sue origini e, con un pizzico di nostalgia, pensa sovente alla sua Poschiavo, dove ritorna puntuale non appena le sue svariate occupazioni di pensionato glielo permettono.

Una prova concreta del suo attaccamento alla valle, alla famiglia da cui proviene e all’attività paterna, Gottardo Bontognali ce la offre con un opuscolo recentemente pubblicato e dedicato all’”Ultimo tresciadru”. Una prosa breve di facile lettura, quasi un canto d’amore rivolto a una professione artigianale che merita indubbiamente il titolo d’”arte”, poiché attività necessariamente arricchita da due componenti che la distinguono da un mestiere o da un lavoro qualsiasi, ossia l’amore e la passione.

Nelle sedici pagine di questo libretto appaiono quattro filoni che s’intrecciano e si fondono in un esemplare compendio; quattro componenti che vanno dalla testimonianza all’elogio, attraverso il ricordo e il rimpianto di un’arte e di un tempo ormai scomparsi probabilmente in modo definitivo.

In primo luogo affiora la testimonianza di un’epoca austera e dura, avara di ricompense materiali, ma ricca di altri valori; fra di essi in primo luogo la libertà dell’individuo, che aveva agio di operare in armonia con la natura, rispettandone i cicli e le stagioni: lo specchio quindi di una civiltà e di una tradizione umili e di modeste pretese, ma sempre gratificate da gioie tutt’altro che trascurabili. Alla testimonianza si associa il ricordo personale di quanto vissuto in famiglia, della schietta atmosfera che permetteva di vivere le gioie e condividere i dolori nella cerchia dei propri cari, senza ambizioni smodate e smaliziate voglie di soddisfazioni particolari. Come non provare in tale rievocazione anche un velato rimpianto del cosiddetto tempo che fu, il rammarico e la nostalgia di un’infanzia felice e tranquilla, vissuta senza pretese di compensi immeritati; quindi, di riflesso, una fanciullezza quasi mai turbata da insoddisfazioni e da cocenti delusioni. Nella rievocazione dell’abilità e delle doti dell’artigiano-artefice-artista si ritrova infine l’elogio non di una sola persona, ma di un’intera generazione costretta a vivere e sopravvivere in tempi duri nell’arco e nell’ambiente alpino; una discendenza caratterizzata dall’attaccamento alla madre terra e alle attività tradizionali di antico stampo. L’elogio è velato e mai idealizzato al di là dell’adeguatezza, ma soprattutto non celebrato ad oltranza fino ad assumere i connotati fastidiosi del mito; un invito, non espresso, ma sottinteso, a rivolgere la mente al passato e alle idee dei nostri “vecc”, che sapevano con provata saggezza trovare soluzioni anche per problemi che oggi, invece, ci assillano.

Pagine che si leggono d’un fiato e si apprezzano per la loro chiarezza, per le spiegazioni minuziose e dettagliate, corredate da disegni e da illustrazioni semplici e illuminanti, necessarie per capire e seguire il nascere di un oggetto comune come la “trescia” in pelle d’un tempo; un prodotto creato senza l’ausilio di macchine e di accorgimenti tecnici, ma fatto anzitutto grazie all’abilità manuale e all’ingegno acuto di un umile operaio, per il quale – come per tanti altri artigiani di quell’epoca – non è certamente sprecato il termine di artista.

Gottardo Bontognali, L’ultimo Tresciadru, Un’arte messa da parte, dicembre 2011 – Tipografia:  Pyramis Digital Druck, Baar – Fotocomposizione: Bonbon, Zurigo



L’ultimo Tresciadru è acquistabile presso

Gottardo Bontognali
Chemin de Planta 75
CH – 1223 Cologny

T: 0041 22 736 92 42
E: gedebon@bluewin.ch