L’arte funeraria di Cristiano Paganini
Quella dell’arte funeraria è un’espressione su cui la storia dell’arte si china malvolentieri, seppur annoveri delle opere straordinarie.
Esistono, infatti, cimiteri cittadini come quello di Genova Staglieno – dove giacciono fra gli altri De André e Mazzini – che non hanno nulla da invidiare ai più importanti musei della scultura. Ci sono addirittura dei campisanti in cui sono proposte delle discrete visite guidate, tanto apprezzabili sono i monumenti lì custoditi, tanto interessanti sono le storie che le pietre raccontano.
E di pietre che parlano ce ne sono diverse anche nei cimiteri valposchiavini; quelle scolpite dall’artista locale Cristiano Paganini, di Zalende (Valposchiavo) conosciuto anche come Kiki.
Nei blocchi estratti dalle rocce della bassa Valposchiavo, il nuvolato verde di Zalende o il granito di Campascio, Paganini ci rivela non solo le capacità acquisite nella bottega di Carrara – cittadina che vide la genesi delle più importanti sculture di marmo – ma la personalità di chi sotto quelle pietre riposa.
Le lapidi diventano così la fotografia della vita trascorsa: al musicista le righe del pentagramma, alla donna devota le mani congiunte di memoria düreriana: a chi il fiore preferito in cui infondo si identificava, a chi gli attrezzi del lavoro svolto in vita, a chi l’immagine del luogo in cui si sentiva a casa. Un flauto, un ciclamino, un simbolo anche minimo, capace però di evocare una concatenazione di ricordi, capace di esprimere a chi ha conosciuto il defunto, il posto preciso che quella persona occupava nel mondo. Insomma, una prova che l’arte non è fine a sé stessa, ma che sa fare di una pietra fredda rubata alla montagna un monumento che nobilita ed appaga con la sua bellezza.
Foto di Serena Visentin scattate a Brusio