Nulla è a rischio zero e a costo zero
I licenziamenti annunciati ultimamente da Repower e le apparenti incertezze sul progetto ‘Lagobianco’ non hanno mancato di far rigurgitare in una parte della popolazione alcune riserve di stampo ambientalistico. Polemiche già espresse sono tornate nei discorsi della gente e sulle pagine dei giornali.
Delle questioni tecniche, finanziarie e di mercato connesse con questi aspetti riferisco nell’altro mio articolo pubblicato e, per chi vuole più ragguagli, nel corposo pdf in esclusiva per IL BERNINA (leggi l’articolo). Qui vorrei invece spendere due parole sul tema ambientalistico. Mi rivolgo a chi vuole assumere una visione organica sul rapporto tra l’uomo e il suo spazio vitale, diciamo su ciò che può essere anche per la Valposchiavo uno ‘sviluppo sostenibile’.
Un paio di anni fa, l’ingegner Roberto Ferrari, responsabile del progetto, mi mostrò gli elementi portanti dell’ambiziosa opera. In quell’occasione espressi delle riserve in merito all’entità e alla frequenza delle escursioni del livello del Lago di Le Prese, non tanto per questioni turistiche d’impatto visivo, quanto piuttosto per ragioni idrogeologiche di stabilità delle sponde. Avanzai anche timori sull’eccessiva influenza esercitata dalle opere di captazione sulle portate naturali dei corsi d’acqua. Ferrari mi diede in proposito varie rassicurazioni tecniche.
Dopo l’incontro, malgrado le ottime delucidazioni ricevute, serbai dentro di me un timore residuo, ridimensionato ma ineliminabile, che il territorio della Valposchiavo potesse subire qualche insulto. La natura può reagire in un modo complesso che trascende la somma di singoli effetti; un modo che non è contemplato nell’approccio ingegneristico classico. Non sarei onesto se non lo dicessi, pur essendo io stesso in origine ingegnere, per giunta idraulico.
Paradossalmente, se c’è un atteggiamento che in seguito mi ha potuto tranquillizzare è proprio quello assunto da certe figure che aprono sistematicamente una voragine di polemiche al cospetto di qualunque opera tecnica a impatto territoriale. Alcuni ambientalisti sono ottimi studiosi e se non sussistesse il loro controllo la società moderna sarebbe di sicuro un luogo peggiore. Altri si pongono invece come i rappresentanti di rigide ortodossie, esercitando leva sulla paura e facendo così qualche facile proselito nella popolazione.

Le osservazioni pervenute da questo fronte mi hanno indotto per rimbalzo a credere con maggiore fiducia all’opera pianificata. Alla fine ho infatti considerato che per attaccare il progetto descritto da Ferrari fosse per forza necessario usare argomentazioni emotive; era segno che, in fondo, non c’erano molti appigli razionali. Reputo che non valga la pena entrare nel merito delle singole critiche, già variamente discusse in passato. Mi pare che sia qui più utile andare al nocciolo della questione, forse non abbastanza considerato, partendo comunque dal presupposto che a questo mondo nulla è a rischio zero e costo zero.
In questo momento di rinnovate polemiche il nocciolo della questione lo vorrei individuare nelle parole che talvolta utilizziamo, perdendo di vista il ruolo del linguaggio che si è forgiato proprio nel nostro rapporto con la realtà. Ebbene, il termine ‘ambiente’ deriva dal latino ‘ambire’, nel significato essenziale di ‘andare attorno’. L’etimologia è illuminante, perché ci rammenta che l’ambiente, contrariamente a quanto molti pensano, non stabilisce affatto una condizione fissa, bensì qualcosa di mutevole che evolve inesorabilmente, più o meno in fretta a seconda dei casi. La parola ‘tecnica’ viene invece dal greco ‘technikòs’ che significa più o meno ‘generato con arte’. Un’opera tecnica, se ben realizzata, può essere qualcosa di artistico che si coniuga al territorio. Detto in altro modo, un manufatto di questo tipo tiene conto delle ‘ragioni’ del territorio e s’inserisce in maniera armonica nella sua lenta evoluzione, tenendo conto dei suoi inevitabili squilibri e delle sue potenziali accelerazioni.

La diatriba tra ambientalismo radicale e tecnica supponente è un dualismo inconcludente, poiché oscilla tra l’idea fasulla di uno spazio vitale immutabile, da inchiodare a tutti i costi in un presente eternizzato, e la concezione altrettanto sballata di una natura modulare, controllabile per parti, come un meccanismo. Malgrado le assunzioni antitetiche, a me pare che si tratti in entrambi i casi di un presupposto estremo di fissità che distorce quella che realmente è la natura, parola che, guarda caso, deriva dal latino ‘nascor’, ‘nascere’.
Ovviamente, la questione non è linguistica, bensì di adattamento. L’uomo da sempre sfrutta la natura per sopravvivere. Così facendo incappa in minacce, ma coglie anche opportunità. L’armonia sta proprio nel trovare il bilancio migliore tra i due fattori, adeguandosi con saggezza ai vincoli circostanti. Anche non fare nulla è talvolta rischioso. L’immobilismo in un mondo mutevole può dimostrarsi pericoloso, esattamente come un’azione dissennata. Penso che la Valposchiavo, già chiusa per ragioni orografiche, dovrebbe tenerne conto. Aprirsi e dare espressione in modo previdente alle capacità costruttive e gestionali locali può essere una buona strategia per mantenere la propria identità, proiettandola nel futuro.

Tornando al progetto, visto anche l’appoggio del WWF, della Pro Natura e della Fondazione della Greina, nonché le esperienze umane centenarie nel settore, a me sembra che nei piani di Repower non ci sia traccia dell’integralismo tecnocratico paventato più sopra. Io credo che un progetto come ‘Lagobianco’ possa svolgere un ruolo economico e culturale analogo a quello che cento anni fa svolsero i lavori pionieristici per la prima centrale. Senz’altro anche allora non mancarono le polemiche.
Qualcuno riterrà ingenuo attribuire a un’azienda come Repower questa visione romantica della progettazione, ossia della tecnica intesa come arte d’inserimento armonico nell’ambiente. Un elemento indicativo però non manca: l’azienda elettrica, pur con i suoi connotati ormai internazionali, sottolinea l’attaccamento alla valle. Bisogna supporre quindi che Repower sappia bene di dovere un tributo al territorio dove hanno fatto fortuna le sue antesignane. Mi viene difficile credere che il suo intento sia quello di espugnare la regione in cui è insediata per poi subirne una reazione che potrebbe solo recare danno ai suoi profitti e alla sua immagine.

È vero che oggi l’irresponsabilità dilaghi e che la visione di decisori grandi e piccoli si accorci, il che genera una diffidenza generalizzata nei cittadini su cui poi il pessimismo ha facile presa. Tuttavia, un impianto idroelettrico è per propria costituzione un’opera che s’inserisce in uno scenario proiettato nel lungo e lunghissimo termine. Non è possibile affrontare un impegno simile senza avere una prospettiva organica, specialmente se il proprio retaggio è quello di chi già in passato ha assunto questa posizione.
Repower potrebbe traslocare, scegliere altre sedi, ciò che per un’azienda del genere costituirebbe una normale ottimizzazione logistica. Tuttavia, l’azienda elettrica non ha questi propositi, in quanto le radici grigionesi e valposchiavine sono un elemento distintivo cui essa non intende rinunciare. Non vorrei sbagliarmi, ma a me sembra che questa decisione costituisca una garanzia supplementare relativamente al rispetto per il suolo e il sottosuolo che l’azienda sfrutta, ricavando un guadagno dal quale può trarre beneficio anche la valle. Direi che questo è un impegno morale, oltre che economico.
- Leggi il “Resoconto del colloquio con Giovanni Jochum“