L’opinione di Roberto Weitnauer
Qualcosa di non detto sulle emissioni – Com’è noto, è una delle tematiche che sono oggetto della votazione che si concluderà domenica prossima.
Premetto subito che questo articolo non vuole essere in alcun modo un’indicazione di voto che giunge all’ultimo istante, tantomeno un pro o un contro alla realizzazione della centrale termica a carbone da 1320 MW di Saline Joniche progettata da Repower. Ho le mie opinioni, ma non pretendo di versarle a mo’ di oro colato all’interno di questo articolo.
Le varie parti politiche hanno ampiamente dibattuto in merito, ognuno ha detto e scritto la sua e sono certamente molteplici le angolature dalle quali è stata affrontata la questione, polemiche incluse. Ho tuttavia l’impressione che sia venuta meno qualche informazione proprio a proposito di alcuni aspetti nodali della faccenda. Sto alludendo ai rilasci in atmosfera. Vorrei allora approfittare di questo spazio per provare a colmare il gap.
In questo modo potrei forse rendere ancora più incerto chi ancora non sa come votare e vede la centrale di Saline Joniche oscillare instabilmente tra uno scempio ambientale e un modello per l’impiego pulito del carbone. Mi sia però concesso di affermare che questo non è un mio problema, né un problema de Il Bernina. A noi sta a cuore la divulgazione di notizie tecniche e scientifiche il più possibile esaustive sulla questione. Sta poi a ognuno trovare in coscienza il modo migliore per amalgamarle con le altre considerazioni.
La tipologia delle emissioni
Un minimo di ricapitolazione sulla tipologia delle emissioni da combustione (che chimicamente è un’ossidazione) non guasta. Queste si dividono sostanzialmente in due categorie: inquinanti e gas serra. Sul fronte dei primi si annoverano il particolato, gli ossidi di zolfo e azoto, gli idrocarburi incombusti, le diossine e i metalli pesanti. Questi composti possono avere effetti nocivi anche gravi sulla salute, in funzione della loro concentrazione e delle condizioni ambientali. I gas serra sono invece costituiti principalmente dall’anidride carbonica (CO2) e, con grande distacco, dal metano. Questi prodotti non sono pericolosi per la salute, ma concorrono al riscaldamento globale, poiché impediscono al calore solare immagazzinato dalla superficie terrestre di essere restituito in forma di radiazione allo spazio oltre l’atmosfera.
Un’ossidazione ideale di un combustibile fossile rilascerebbe soltanto anidride carbonica e acqua, ma siccome i processi termici non sono mai perfetti nella realtà della tecnica e siccome i combustibili non contengono solo carbone e idrogeno, è inevitabile che negli scarti aerei della combustione si riscontrino quantitativi più o meno elevati di polveri fini, oltre che di idrocarburi incombusti e di ossidi di zolfo e azoto.
Il particolato è lo spauracchio maggiore, dato che gli altri inquinanti, checché se ne dica, non costituiscono più un problema ostico per gli ingegneri di oggi. Esso è un prodotto tipico della combustione di qualunque combustibile fossile, oltre che di altre attività antropiche e perfino biologiche o geologiche. Si tratta di polveri formate da particelle solide (e anche liquide) di varia dimensione che restano per lo più sospese in aria. Può trattarsi di corpuscoli carboniosi, metallici, silicei, organici o di altra natura chimica. Non v’è alcun dubbio che possano essere dannosi per la salute, qualora presenti in concentrazioni eccessive.
Lo sforzo ambientale di Repower
L’impianto di Saline Joniche introdurrebbe certamente nell’atmosfera calabrese un carico addizionale di gas serra e di inquinanti. Il punto è sapere se questo sia sostenibile o non lo sia. Il responso dipende in parte da considerazioni di ordine economico e strategico, in parte da considerazioni di carattere ambientale. In un caso come nell’altro ci sono dei costi da sostenere; cambia solo la loro distribuzione, il che, non mi si fraintenda, non è un problema da poco, giacché contrappone il pubblico al privato. Non è però questo il tema che vorrei trattare qui, anche perché altri l’hanno già fatto in lungo e in largo.
Restando sul piano tecnico e scientifico, per l’impianto di Saline Joniche è previsto un processo di combustione del carbone di efficienza massima rispetto a quanto oggi può garantire l’impiantistica. Questo riduce parecchio e all’origine diversi composti nocivi (in linea di massima, più l’ossidazione è spinta e più è pulita). In aggiunta, stando alle dichiarazioni di Repower, sono previsti investimenti per circa 400 milioni di franchi volti alla riduzione degli inquinanti residui: trattamento dei fumi e dispositivi di filtrazione. Nel complesso, un terzo circa dell’investimento totale è dedicato all’ambiente e alla salute.
La pericolosità delle polveri
Tutto chiaro dunque? Non tanto. La brutta notizia è che secondo uno studio molto recente e autorevole che ha fatto il giro di diversi media mondiali (IOPScience, luglio 2013) il particolato, specialmente quello fine (PM2.5), sembra essere ampiamente sottovalutato dalla totalità delle regolamentazioni occidentali. La ricerca stima che le polveri provochino sul globo ogni anno il decesso di oltre due milioni di persone adulte, altrimenti sane, inducendo tumori polmonari (3%) e disfunzioni cardiache (97%).
Le analisi condotte accusano un certo margine d’incertezza, come sempre accade di fronte alle problematiche complesse, multifattoriali e in via di evoluzione. Tuttavia, proprio per questo, i ricercatori hanno operato con una funzione causa-effetto del tutto conservativa. Sono inoltre state considerate solo le minacce che gravano sugli adulti oltre i 30 anni di età. Si può quindi supporre che i dati di mortalità, già allarmanti, possano risultare persino sottovalutati.
Si noti infine che vi sono ancora ampie regioni del pianeta in cui il particolato è ridotto ai minimi termini. Questo vuol dire che i decessi per l’inquinamento atmosferico gravano proporzionalmente ancora di più; potrebbero tranquillamente centuplicarsi, qualora tutta la Terra si trovasse nelle condizioni medie dei paesi industrializzati.
Naturalmente, il carico maggiore delle polveri si ha nei paesi asiatici in forte sviluppo economico, dove la tecnologia è talvolta antiquata e dove le normative non sono severe come da noi. Va però precisato al riguardo che i diversi modelli di studio impiegati nel passato hanno evidenziato che il tasso di mortalità tende ad appiattirsi per le concentrazioni elevate di particolato. Le inquinate e incontrollate aree del sud-est asiatico non sono dunque un alibi per sostenere che la nostra condizione sia del tutto diversa, ossia molto più tranquilla.
Basta che Repower stia nei limiti normativi?
Tutto questo vuol dire allora che un impianto come quello di Saline Joniche concorre a peggiorare la situazione in modo sensibile? Nemmeno questa sarebbe una conclusione inopinabile. Bisognerebbe stabilire di quanto andrebbero abbassati i limiti normativi, alla luce di queste ultime importanti risultanze scientifiche. Solo a quel punto si potrebbe apprezzare se i rilasci preventivati da Repower siano accettabili o meno. Secondo i dati progettuali il livello di emissione controllata in Calabria si collocherebbe mediamente solo a metà rispetto alle soglie previste dalla normativa italiana. È un risultato eccellente, ma può bastare? La domanda resta aperta.
C’è un’ulteriore notevole circostanza di cui tenere conto. Risulta infatti dalle indagini effettuate che l’influsso negativo esercitato dalle variazioni climatiche del globo sulla qualità dell’aria e sulla salute è meno che modesto. Contano insomma molto di più le immissioni nell’aria di polveri fini che non il riscaldamento globale del pianeta (in alcuni casi sembra addirittura che l’aumento termico abbia procurato un beneficio).
Se questo è vero non si può sostenere, come qualcuno fa, che il riscaldamento generale del pianeta occorso negli ultimi decenni abbia peggiorato la qualità dell’aria e che questo fattore possa amplificare l’effetto negativo dei rilasci di polvere. Questo significherebbe anche che le emissioni di CO2, potenziale causa di innalzamento termico globale, non possono essere chiamate in causa in termini di cofattore negativo per la salute umana.
I summit della Terra
A questo punto conviene passare al riscaldamento globale e alla CO2 che viene considerata una delle sue concause preminenti, soprattutto con riferimento a quella di origine antropica. All’ultima si punta un dito accusatore per via del suo veloce incremento nell’ultimo secolo, ma bisogna ricordare che alla CO2 totale terrestre, sia pure incrementata, non può essere imputato più del 5-10% di responsabilità nell’effetto serra che si produce attorno al pianeta. L’effetto serra più ingente è quello provocato dal vapore acqueo (circa 90%), insomma dalle nuvole e dall’umidità presente nell’aria.
I cosiddetti ‘summit della Terra’ delle Nazioni Unite, a partire da quello tenutosi a Rio de Janeiro (Brasile) nel 1992 fino a quello di Doha (Qatar) del 2012, non hanno mai sortito una considerevole unità d’intenti dei grandi decisori nel contrastare l’innalzamento termico mondiale. L’obiettivo di limitare l’aumento termico entro il 2050 al massimo ai fatidici 2 gradi centigradi (rispetto alla media 1961-1990) appare poco considerato.
Come se non bastasse, al nuovo Protocollo ‘Kyoto2’ sui cambiamenti climatici, entrato in vigore all’inizio di quest’anno, non partecipano la Cina e gli Usa che insieme fanno quasi la metà delle emissioni di gas serra mondiali (24 tonnellate di CO2 annue per ogni cittadino di quei paesi). Kyoto2 è supportato al momento solo da Unione Europea, Australia, Svizzera e Norvegia che insieme emettono meno del 15% del carico totale di CO2. Non si può dire che si tratti solo di atteggiamenti ‘politically correct’, dal momento che hanno un costo, come ben sa Repower.
È indiscutibile che una delle ragioni di questo stallo vada ricercata negli interessi produttivi ed economici coltivati da nazioni industrializzate più o meno potenti. Tutto ciò è senz’altro esecrabile. Bisogna però anche riconoscere che non si tratta solo di sconsideratezza dei governanti. In effetti, c’è nelle alte sfere uno scetticismo diffuso tanto a proposito della responsabilità della CO2, quanto sul riscaldamento globale. Non se ne parla molto, perché non va di moda e non è politicamente conveniente. Ne parliamo allora qui su Il Bernina.
Tutta colpa della CO2 antropica?
Tempo fa qualche scienziato critico aveva avanzato l’ipotesi che le emissioni di CO2 causate dalle attività dell’uomo (essenzialmente combustioni) non andassero dopotutto a incrementare più di tanto la concentrazione di CO2 presente nell’atmosfera. Prima dell’ultima rivoluzione industriale (1880), quella che ha introdotto l’uso massivo di prodotti chimici e petrolio, la concentrazione ammontava a circa 280 ppm (parti per milione). Si tratta di una stima, giacché la CO2 atmosferica viene rilevata solo dal 1959. Secondo questa interpretazione le odierne oltre 400 ppm deriverebbero quindi da altri fattori (ad esempio, diminuzione delle foreste).
Quanto supposto è falso. Si è visto chiaramente, infatti, che una correlazione tra le due CO2 c’è, eccome (NOAA, 2008; CDIAC, 2006). Tuttavia, le persone accorte sanno che correlazione non significa ancora causalità. Ma ecco che già precedenti analisi avevano potuto verificare (in base all’analisi degli isotopi) che il carbonio presente nei combustibili fossili è proprio quello che è andato a incrementare la CO2 dell’atmosfera (ScienceDirect, 2003). Uno a zero per i sostenitori del Protocollo Kyoto2.
A questo punto fa capolino un altro tipo di scetticismo. Chiediamoci infatti se sia proprio vero che l’aumento di CO2 in atmosfera provocato dall’uomo determini un aumento delle temperature medie globali della superficie terrestre. La risposta è: no (NOAA, 2013). Nel 1995 la concentrazione di CO2 era di 360 ppm, 10% meno di oggi, eppure le temperature medie non sono affatto cambiate, un dato poco noto.
Siccome la CO2 è un gas serra che blocca la fuga di calore dal pianeta, ci si domanda inevitabilmente: dove è andata a finire l’energia termica addizionale che dal 1995 a oggi è stata incamerata dalla Terra irradiata dal Sole? È finita negli oceani, ecco dove (Physics Letters A, 2012). Attualmente il calore sta transitando verso maggiori profondità marine, tra i 700 e i 2000 m. La superficie si raffredda, l’umidità decresce e quindi anche il vapore. Come abbiamo visto, quest’ultimo è un potente gas serra. La conseguenza è che le temperature superficiali vengono contenute o addirittura calano. Ricapitolando: uno a uno tra scettici e Kyoto2. Ma l’ultimo punto segnato dagli scettici pesa parecchio, come un tiro di Pelé o di Maradona.
Forse il nostro emisfero non si scalda più
C’è una circostanza importante da tenere presente nella climatologia. L’atmosfera è un ciclopico sistema che scambia calore con il suolo, con gli oceani, con il Sole e con lo spazio extraterrestre. Si tratta di un sistema complesso (caotico) e dotato di una certa inerzia. Per questa ragione gli studiosi osservano le variazioni su una scala di tempo piuttosto lunga; 30 anni è lo standard. Variazioni entro intervalli minori potrebbero confondere le idee.
In questa ottica, una costanza delle temperature dal 1995 a oggi è un po’ poco per trarre conclusioni. Forse il calore migrato verso gli abissi marini tornerà un giorno a galla. Avremo lo stesso risultato anche nel 2025, quando saranno passati 30 anni dal nostro riferimento del 1995? Ai posteri l’ardua sentenza.
Qualcuno sembra però voler anticipare i posteri, almeno per quanto riguarda l’emisfero settentrionale. Chi è costui? Si tratta di Mototaka Nakamura, un nipponico, ovviamente. Cercando le sue pubblicazioni, si può avere qualche difficoltà a distinguere il nome dal cognome, ma poi ci si rende conto che è un ricercatore di fama mondiale che lavora in seno all’Agenzia nazionale giapponese per le ricerche marine, un istituto prestigioso.
Nakamura si è rapportato a un periodo ben più lungo di 30 anni, analizzando i valori termici nel Mare di Groenlandia dal 1957 ad oggi, confrontandoli poi con le variazioni climatiche mediante un modello fisico-statistico. Qual’è la conclusione questa volta? Nakamura afferma che entro il 2015 la nostra parte di mondo avrà raggiunto il flesso di un andamento termico ciclico con periodo di circa 70 anni. Da quell’anno inizierà così un nuovo lungo raffreddamento; e via così sulla giostra delle temperature medie che, dopotutto, è da sempre in movimento. Va aggiunto che altri studi, sempre più numerosi, giungono a conclusioni analoghe a quelle del giapponese. Si direbbe che gli scettici vincano due a uno.
Scetticismo o cautela?
Siamo in chiusura di articolo. Il tono un po’ scherzoso qui utilizzato può dare l’impressione che la faccenda del clima possa essere presa sotto gamba. Beh, non è affatto così. Diciamo che la situazione è complessa, che le certezze sono davvero poche, meno ancora di prima, e che i rischi restano comunque molto elevati. In questo contesto le frasi a effetto possono servire a stuzzicare il senso critico, a giudicare in autonomia e con responsabilità in qualità di persone informate. Sì, perché di demagogia e pressione politica sembra che ce ne sia fin troppa su questi temi. Risulta quindi difficile restare obiettivi.
In una recente intervista a Swissinfo, Thomas Stocker, noto climatologo svizzero e copresidente presso l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) del Working Group I, ha asserito: Spetta alla popolazione mondiale decidere come sarà il clima tra 50 o 100 anni, quali regioni si riscalderanno e di quanti gradi, fino a che punto farà più secco o più umido, di quanto aumenterà la frequenza degli eventi estremi e il livello degli oceani.
Sarà vero che abbiamo questo potere? Forse i potentati passano tranquillamente sopra le nostre teste. Oppure, forse, il sistema termodinamico terrestre è troppo complesso perché, i pochi influenti interessati o, viceversa, i tanti uomini che votano democraticamente, possano ambire a controllarlo.
Repower, come tutte le altre imprese energetiche, deve fare i conti con delle normative che potrebbero essere state fissate in osservanza di timori climatici ingiustificati, sotto la spinta di una presunta maturità ambientale che, alla fine, potrebbe rivelarsi solo un atteggiamento fideistico e inconsistente rispetto alle nuove evidenze scientifiche.
Come si può d’altronde controbattere a chi venisse a raccomandare prudenza? Stocker, per esempio, è fermamente convinto che le emissioni antropiche di CO2 siano deleterie in termini climatologici e rischino di portarci alla rovina. Altri la pensano diversamente, come abbiamo visto. Chi ha ragione? L’IPCC è una delle massime autorità in campo, proprio quella maggiormente coinvolta nella fissazione dei protocolli internazionali; il che riporta la palla al centro.
Cari lettori, vi avevo avvertito che non avrei dato indicazioni di voto. Ma, se mi avete seguito sin qui, non penso possiate dire che siete al punto di partenza. Se non avete ancora votato forse siete in possesso di qualche elemento di riflessione in più; se invece avete già votato spero che questo articolo non vi abbia fatto cambiare idea.
Ora vi saluto da Il Bernina e vado a votare; e non farò scheda bianca.
Roberto Weitnauer
Poschiavo, 20 settembre 2013