Barone Utopia – Un bello spettacolo e alcuni interrogativi

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L’opinione di Guido Lardi
Negli scorsi mesi di giugno e d’agosto è andato in scena a Poschiavo varie volte il brano teatrale Barone Utopia.

Adeguatamente collocata nel cortile interno dell’albergo Albrici, ossia nell’ambiente originale e quindi congeniale del palazzo Massella di una volta, la rappresentazione ha accentrato su di sé l’attenzione di una schiera eterogenea di pubblico – giovani, meno giovani e anziani, gente del luogo e ospiti giunti per l’occasione dai quattro venti – che in generale hanno manifestato la loro più o meno esplicita approvazione per quanto offerto da una troupe variegata di interpreti; attori professionisti e affermati, ma anche interpreti dilettanti reclutati fra le file della filodrammatica locale.

Va detto a scanso di ogni equivoco che la recita è riuscita, poiché ha saputo creare, a parte qualche sbavatura e qualche anche macabra forzatura, cui si poteva facilmente rinunciare senza inficiare il valore e il contenuto dell’opera, un’atmosfera tutto sommato avvincente in uno scenario opportunamente e necessariamente scarno, ma senz’altro suggestivo e adeguato. Ciò indipendentemente dal fatto che la recita abbia richiesto agli spettatori un impegno e una flessibilità non comuni, di fronte alla narrazione di una vicenda ambientata in luoghi, tempi, ambienti e situazioni disparate, a volte repentinamente cangianti fra di loro senza preavviso. Allo stesso modo anche la presenza e l’agire dei personaggi in scena ha richiesto una bella dose di duttilità al pubblico, che si è visto molto spesso confrontato con un testo apparentemente facile da capire, ma tutt’altro che semplice da interpretare. Sono piaciuti in primo luogo i due personaggi chiave della vicenda, il Barone e la sua irreale e inseparabile compagna, la fantomatica Carriera. Ma anche lo sforzo interpretativo delle altre attrici e degli altri attori, compresi quelli non professionisti, è stato assai equilibrato e indirizzato da un’abile regia sul binario di una recita sciolta e di una dizione quasi sempre stimolante. Va dunque riconosciuto allo spettacolo offerto a Poschiavo il merito di aver riproposto all’attenzione pubblica il personaggio tutt’altro che marginale per la nostra storia di Tomaso Francesco Maria Bassi, divenuto poi barone de Bassus, in una visione nuova e in una veste perlomeno insolita, per certi aspetti inattesa e inattendibile.

Si è detto e sottolineato la rappresentazione ha preso le mosse dal romanzo Il barone de Bassus di Massimo Lardi, pubblicato in italiano nell’autunno del 2009 e poi successivamente tradotto anche in lingua tedesca, opera che avrebbe quindi servito come filo conduttore della pièce. Chi si è preso la briga di leggere e di approfondire con attenzione la biografia romanzata nel testo originale, ha avuto tuttavia non poche difficoltà a trovare una vera e propria convergenza fra i personaggi che emergono da una parte dal citato romanzo e dall’altra dallo spettacolo andato in scena; prima fra tutte l’interpretazione della figura centrale di Francesco Maria, con o senza titolo di barone. Ma anche la presentazione dello spirito reale del tempo, un Settecento agli sgoccioli difficile da inquadrare correttamente alla luce dei nostri giorni, non può certo essere definita congruente e convincente fra quanto proposto da Massimo Lardi da una parte e da Oliver Kühn, autore e direttore artistico dello spettacolo teatrale, dall’altra.

Per avvalorare e giustificare questa affermazione sarebbe necessaria una lunga disquisizione, che non è possibile fare nell’ambito di un articolo di giornale. Ma anche a rischio di semplificare oltre misura e quindi di non essere sempre interamente capito, va detto che le due “visioni” del personaggio chiave sono antitetiche e quindi poco conciliabili fra di loro. Nel romanzo, Francesco Maria è in primo luogo un uomo stimolato da nobili intenti e da un innegabile impeto filantropico, che lo porta forsanche ingenuamente a orientarsi e adagiarsi su idee onestamente ritenute “illuminate” e illuminanti per sé e per il prossimo; nella versione teatrale lo stesso personaggio è invece sostanzialmente, se non esclusivamente, soggiogato o addirittura ossessionato dal mero interesse egoistico, che serve alla carriera e all’arrampicata sociale e finalmente si conclude in un’inevitabile disfatta, quasi un castigo per la sua smisurata ambizione.

La diversità manifesta fra le due interpretazioni scaturisce da intenti e da diverse premesse nel concepire l’essenza della persona alla fine del Settecento, lo spirito di quel tempo, la mentalità corrente (l’opinione pubblica si potrebbe dire), il ruolo delle istituzioni, il loro valore culturale e sociale, la loro importanza e la loro accettazione da parte della gente comune, che – contrariamente a quanto si pensa troppo spesso – non è rappresentata solo da uno stuolo di creduloni ingenui e sprovveduti. Ma si tratta anche di una concezione diversa di quella che era una ben precisa (autentica nel senso della parola) quanto eccezionale situazione politica della terra e della gente della fiera e orgogliosa Repubblica delle Tre Leghe, non uno Stato nella Stato, ma – seppur nel suo declinare sotto la pressione degli eventi – un’entità politica indipendente e sovrana a tutti gli effetti non solo nel suo insieme, ma anche nelle sue componenti, come lo era la valle di Poschiavo.

Da una parte una visione di segno positivo per quanto riguarda l’uomo, il suo destino e la possibilità di migliorare e redimere la propria condizione umana; dall’altra uno sguardo e una filosofia di vita condizionata da una concezione scettica e sfiduciata rivolta al cosiddetto “potere” dominante nei confronti del singolo individuo, considerato creatura soggiogata dall’alto da forze occulte, vere o presunte, che lo privano del libero arbitrio.

Per facilitare allo spettatore un approccio più adeguato alla “realtà” storica di un momento così importante (ovviamente non solo per Poschiavo e la sua terra) come il declinare del XVIII secolo, nella rappresentazione dell’eccezionale statura politica e culturale del “Barone”, nonché delle sue vicende utopiche o meno, a mio avviso sarebbe stato auspicabile un migliore connubio, una migliore fusione, una più approfondita aderenza ai fatti storici e una più ampia compenetrazione degli elementi che determinano l’una e l’altra concezione, o se volete l’uno e l’altro fronte ideologico. Peccato; forse si è mancata un’occasione…

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Guido Lardi