Approfondimento di Roberto Weitnauer
Spesso si parla d’inquinamento da polveri fini. I più imputano la loro emissione ai veicoli a motore. D’inverno la colpa va ricercata invece altrove, come spiega Weitnauer in questo primo articolo sulla combustione della legna e sulle conseguenze che produce sullo stato dell’aria di una valle alpina come la Valposchiavo.
Un inquinamento antico
Il focolare acceso nelle serate invernali denota un che di romantico, evocando un rapporto ancestrale e idilliaco tra l’uomo e la natura. Ancestrale lo è senz’altro, idilliaco per nulla: la combustione della legna avvelena l’aria.
È opinione comune, ma falsa, che l’inquinamento atmosferico sia una questione tutta moderna, derivante dallo sviluppo delle fabbriche e dalla circolazione dei mezzi a propulsione termica. È poco noto che l’antica Roma, per esempio, era un insediamento nocivo per la salute, a causa delle condizioni igieniche e dell’uso di legna da ardere. Il riscaldamento, l’illuminazione o la cottura degli alimenti causavano ingenti rilasci particellari e volatili correlati con malattie acute e croniche serie, soprattutto polmonari.
La scarsa aerazione delle abitazioni e delle vie strette peggiorava la condizione. Il Ponentino che in quelle regioni spira dal mare solo d’estate non era di certo sufficiente ad asportare dall’urbe il carico annuale di miasmi e fuliggine che accorciavano l’aspettativa di vita dei cittadini.
Quello dell’antica Roma non è nemmeno un esempio tra i più antichi che si possano citare. Nei ghiacci della Groenlandia si rinvengono ancora oggi tracce di inquinanti che risalgono addirittura all’uso del fuoco nella forgiatura dei metalli, condotta a partire dal quinto millennio a.C.
Non è il caso di prolungare la retrospettiva storica. Occorre però sapere che la combustione di legna ha fin da tempi preistorici determinato accumuli insospettabili di sostanze tossiche, minando la salute dell’umanità.
Clima, orografia e polveri fini
Alcuni credono che ciò che brucia in un caminetto o in una stufa diventi semplicemente fumo che si disperde nell’aria, sino a scomparire per effetto di una diluizione estrema. Non è così.
La combustione della legna produce molti inquinanti invisibili e aeriformi: solfati, nitrati, composti organici volatili, idrocarburi incombusti e monossido di carbonio, solo per citare i principali. Il fumo deriva invece da particelle carboniose, altri idrocarburi incombusti e sostanze organiche solide. In quanto alla dispersione dei prodotti, essa viene talvolta ostacolata dalle condizioni locali. Proprio questo riguarda da vicino i nostri territori.
Quando d’inverno s’instaura l’inversione termica (più freddo in basso che in quota) non sussiste rimescolamento dell’aria. Dai pendii elevati delle montagne si può allora notare nelle giornate di sole la formazione di stratificazioni che permangono nel fondovalle anche per giorni, dipingendo un paesaggio sinistro. Si tratta dell’accumulo progressivo di polveri inquinanti che non hanno vie di fuga: è un aerosol venefico che inaliamo respiro dopo respiro (specie se facciamo sport all’aperto).
A prescindere dall’inversione termica, le valli strette come le nostre risultano minate dall’accumulo di composti tossici. Le giornate ventose ripuliscono l’aria, ma il bilancio annuale può risultare critico se prevale la stabilità meteorologica.
A preoccupare è oggi proprio l’aerosol di polveri che d’inverno proviene da stufe e caminetti e in parte dai motori a gasolio, decisamente meglio filtrati. Una comune stufa, anche ben tenuta e gestita, risulta in proporzione molto più inquinante di qualunque impianto di combustione industriale. Non è allora difficile capire come possa risultare gravoso il carico di molti riscaldamenti a legna domestici che funzionino simultaneamente.
Il PM10 nei nostri territori
Le polveri fini si indicano con ‘PM’, che sta per ‘particulate matter’, seguito dalle dimensioni della particella massima nella frazione che s’intende considerare. Per esempio, il PM10 identifica tutti i grani microscopici che hanno un diametro sino a 10 millesimi di millimetro.
L’Ordinanza federale contro l’inquinamento atmosferico (OIAt) ha fissato le soglie di PM10 da rispettare: 50 microgrammi (milionesimi di grammo) al metro cubo per la media giornaliera (da non superare più di una volta all’anno) e 20 per quella annuale. Come siamo messi rispetto alla normativa?
L’Ufficio per la natura e l’ambiente dei Grigioni (UNA) asserisce che nelle nostre valli meridionali le polveri fini invernali sono determinate in massima parte proprio dalla combustione di legna e che risultano tutt’altro che trascurabili.
L’aria dei Grigioni è nel complesso buona, ma nella bassa Mesolcina il PM10 ha oltrepassato negli ultimi anni le concentrazioni stabilite dall’OIAt in modo allarmante. Poiché si è già provveduto all’applicazione di filtri per i macchinari da cantiere, alla verifica periodica dei grandi impianti e al divieto di bruciare scarti vegetali all’aperto, lascio indovinare al lettore a cosa vadano imputate le polveri carboniose che gravano d’inverno sugli abitanti di Grono o Roveredo. Il Cantone è dovuto ricorrere a un piano apposito per il futuro risanamento dell’aria di quei luoghi.
Nella Valposchiavo la situazione è meno compromessa. Nondimeno, anche qui l’UNA pone in risalto il particolato prodotto localmente da stufe e caminetti. In tutto il periodo invernale esso è diverse volte superiore a quello imputabile al traffico. Naturalmente, per la gioia di chi abita lungo la cantonale, ci sono settimane dell’anno in cui i due effetti nocivi si sovrappongono.
Progressi davvero decisivi sono stati compiuti dalle amministrazioni cantonali e comunali, nonché dall’imprenditoria nella lotta all’inquinamento. Proprio per questo sul riscaldamento a legna privato ricade oggi una maggiore responsabilità nei confronti del PM10 ancora pericolosamente presente nell’aria. Appare verosimile che pochi in Valposchiavo, come del resto altrove, se ne rendano pienamente conto.
Visita IL BERNINA nei prossimi giorni per leggere le successive puntate dell’approfondimento.