L’abbandono di Schengen rappresenterebbe un costo ciclopico
(di R. Weitnauer)
Una parte minoritaria dell’opinione pubblica svizzera ha sempre storto il naso di fronte alle problematiche europee, pensando più o meno: bé, meno male che ne siamo fuori. I fatti parlano però un’altra lingua.
La Svizzera è troppo piccola per farsi sentire nell’economia mondiale, ma abbastanza sviluppata da esporsi ai venti d’alta quota. Un’economia pubblica e privata ben gestita, ma vicina a grandi nazioni in crisi, può finire per trasformarsi in uno svantaggio. Le difficoltà causate dal franco forte ne sono una prima netta dimostrazione.
Nel 2015, anno segnato dall’abbandono del corso minimo, la disoccupazione è aumentata nel Paese quasi al 4%, il massimo da sei anni, e mostra segni di recrudescenza (dati Seco). L’incremento del Pil vale solo 0.8% ed è in termini reali meno della metà di quello dell’Ue, dove invece la disoccupazione diminuisce. Esso si colloca circa al livello di quello dell’Italia, zavorrata dal debito e dal fiscal compact (la Lombardia, paragonabile alla Svizzera, fa segnare 1.2%, anche grazie a Expo).
La formazione dell’Ue è un processo unidirezionale. Ciò vuol dire che se per caso esso dovesse fallire non sarebbe facile tornare indietro. L’evento ricadrebbe rovinosamente sulla Svizzera. D’altronde, se l’Ue prenderà il volo una Svizzera incauta fuori dai bilaterali si ritroverà isolata.
A fare scricchiolare in modo sinistro l’Ue c’è soprattutto l’idea di un abbandono di Schengen. I flussi migratori, fenomeno epocale, stanno mettendo a dura prova alcuni paesi membri. La fine del trattato (oggi minacciato soprattutto dal tracollo greco) rappresenterebbe un costo ciclopico per le economie comunitarie e, identicamente, per quella della Svizzera, nazione che fa parte dello spazio di Schengen dal 2008.
Proviamo a immaginare cosa ciò significherebbe per le varie decine di migliaia di frontalieri che attraversano i confini svizzeri. Pensiamo anche al ripristino dei vincoli sullo scambio delle merci. Per l’Ue la reintroduzione per un anno dei controlli doganali costerebbe fino a 18 miliardi di euro, senza contare gli oneri indiretti. Ma il commercio si ridurrebbe del 10% con un danno pari a 100 miliardi di euro! Qualcuno ha fatto i calcoli per la Svizzera? L’industria del turismo sarebbe la prima a leccarsi le ferite.
Com’è noto, a seguito dell’esito della votazione di febbraio 2014, la Confederazione ha dovuto chiedere di ritrattare Schengen con le conseguenze nefaste che oggi si sono profilate. È stato calcolato che l’applicazione dei contingenti comporterebbe un’ulteriore perdita dello 0.3% del Pil. Intanto, già adesso la ricerca svizzera ha subito un dimezzamento delle partecipazioni ai programmi scientifici Ue. I finanziamenti comunitari si sono ridotti da 2.5 miliardi a 170 miseri milioni. Il danno è grande, perché l’innovazione è trainante per il Paese. Inoltre, la Svizzera ne esce con un’immagine internazionale ammaccata.
Potrebbe il rischio di una Brexit (uscita della GB dall’Ue) ammorbidire Bruxelles anche nei confronti della Confederazione che si sta arrampicando sugli specchi per trovare una soluzione? A quanto pare, no. Così, non è escluso che occorrerà una nuova votazione per provare a evitare il peggio.
L’importazione di criminalità con l’immigrazione è purtroppo una realtà (seppure la rotta mediterranea sia attualmente meno battuta). Tuttavia, questo tema è anche fumo gettato negli occhi dai partiti populisti. La vera difficoltà è data infatti dall’acquisizione da parte dei migranti di un diritto al welfare (benefici sociali) corrisposto dalla nazione ospitante per il quale non hanno versato alcun contributo.
L’elevato tasso di accoglimenti potrebbe sconvolgere l’assetto economico-sociale fino ad ora imperante in diverse nazioni del Continente (si vedano le analisi su ‘Project Syndicate’).
Questo è un problema serio. Come risolverlo? La Svizzera e la Danimarca hanno leggi che impongono ai richiedenti meno poveri cauzioni e fiscalità lavorative ad hoc per coprire i costi dell’accoglienza. Esse stabiliscono un deterrente nei confronti di chi non contribuisce al welfare e finisce poi per delinquere. Tuttavia, il Commissariato dei Diritti Umani del Consiglio d’Europa e l’Agenzia per i Rifugiati dell’Onu stanno già facendo fare dietro front a Copenhagen. Resta la Svizzera.
È difficile dire se questi criteri, opportunamente ricalibrati, possano discutersi con l’Ue. Ancor peggio è però tirare fuori dal cappello trovate demagogiche che rischiano solo di mostrare il lato debole della democrazia diretta. Per esempio, l’espulsione automatica degli stranieri rei è una misura draconiana che contravviene pericolosamente all’assetto di uno Stato di Diritto, e che non risolverebbe i problemi di welfare, né quelli di ordine pubblico.
Non c’è dubbio che l’immigrazione abbia un costo. Bisogna però considerare, come osservano alcuni analisti, che la crisi da essa provocata potrebbe costituire un’opportunità per una nuova coesione europea (lo evidenzia anche ‘Finanz und Wirtschaft’). Con questa eventuale nuova svolta integrativa dei paesi membri che fine farebbe una Svizzera fuori da Schengen, che impone ai migranti confische di valori ritenute arbitrarie dall’Ue e che espelle gli stranieri senza regolari processi?
Roberto Weitnauer 13 febbraio 2016