I risultati del progetto quadriennale CarbFix appaiono tanto semplici quanto formidabili (di R. Weitnauer)
Lo si desume da un articolo pubblicato dal gruppo di ricerca islandese il 10 giugno scorso su Science. Se la tecnica descritta riuscisse a imporsi su scala industriale, potremmo attenderci un netto calo dei gas serra, pur continuando a ricorrere ai combustibili fossili. E scusate se è poco.
L’Islanda è una terra ricca di rocce effusive di origine vulcanica. Come vedremo, ciò risulta discriminante in questo ambito tecnico-scientifico. Quello di CarbFix è l’uovo di Colombo? Certo è che la notizia ha fatto il giro del mondo tra gli addetti ai lavori.
Tutti sappiamo che lo sfruttamento di petrolio, carbone, gas naturale o biomassa determina un rilascio in atmosfera di CO2. Si tratta di 40 miliardi di tonnellate annue. Ogni anno nel mondo muoiono 7 milioni di persone, a causa degli inquinanti carboniosi (Unep). Sono tuttavia le conseguenze climatiche della CO2 (che non è un inquinante) a spaventare di più. In questo caso la minaccia ricade su un’intera porzione della biosfera.
Non facciamoci troppe illusioni: le riserve fossili dureranno ancora per un bel po’. Forse non è molto noto, ad esempio, che anche le tanto detestate centrali a carbone sono sovvenzionate in molte nazioni.
Il Giappone è il primo della lista con 22 miliardi di dollari di finanziamento negli ultimi otto anni. Altri 10 sono previsti nel futuro. Chi viene dopo? Si tratta della ‘verde’ Germania che ne investirà 9. Seguono gli Usa con 5, la Francia con 2.5, l’Italia con 2, il Regno Unito con 1 e il Canada con meno di 1. Nel Sud-Est Asiatico verranno installate centinaia di nuove centrali a carbone nel prossimo ventennio (Nrdc, Wwf, Oil Change International).
Dopo il vertice di Parigi le prospettive sono un po’ migliorate, ma è anche vero che i soldi destinati al carbone continuano a scorrere attraverso canali opachi. Il che non è di buon auspico.
Chi scrive ha creduto in passato che gli allarmi per il riscaldamento globale fossero frutto di esagerazioni lobbistiche. La questione è complessa, ma bisogna riconoscere che è oggi schiacciante la maggioranza degli scienziati che vedono nei gas serra antropici una delle principali minacce ambientali.
In questi ultimi anni si rileva un aumento di anomalie meteo che a stento rientrano nelle normali oscillazioni statistiche: ondate di calore, piogge torrenziali, tempeste, uragani. Molti studiosi sostengono che si tratti dei segni di un’evoluzione climatica ormai innescata con decisione. Il motivo è semplice: una maggiore quantità di energia solare viene intrappolata nell’atmosfera dai gas serra, scaricandosi poi in modo intenso nella termodinamica terrestre.
Nei prossimi decenni il modello business as usual porterà attorno al bacino del Mediterraneo non milioni, ma centinaia di milioni (!) di rifugiati climatici provenienti dalle torride e polverose regioni nordafricane e mediorientali. Scenari analoghi sono ipotizzati altrove, come tra Usa e Messico. È immediato intuire come le migrazioni per la ricerca di nuovi spazi vitali e di acqua possano fomentare guerre (varie proiezioni Onu).
Come affrontare dunque la contraddizione? La risposta è duplice: diminuire drasticamente i consumi e/o adottare sistemi di abbattimento dei gas serra. Pare però improbabile che gli occidentali decideranno per tempo di cambiare spontaneamente il loro stile di vita. Gli accorgimenti tecnici per il risparmio aiutano, ma non risolvono la condizione (alcuni standard, come Minergie, sono inoltre criticati).
Focalizziamoci sulla seconda opzione. Si parla da anni d’impianti di sequestro della CO2. Con questo approccio il gas viene catturato, liquefatto, trasportato e poi iniettato nelle profondità geologiche. La tecnica accusa una fragilità: il rischio che la CO2 sfugga dal sottosuolo e torni in atmosfera.
La CO2 è una molecola piuttosto indolente. Ciò non toglie che se incontra opportuni reagenti possa trasformarsi. È del resto su questa possibilità che si basa la vita vegetale. Far convertire in loco dalle piante (fotosintesi) le grandi masse di CO2 scaricate dalle centrali termoelettriche non è un’ipotesi plausibile, dato che occorrerebbero serre colossali e complesse. Che dire di un ampio substrato inorganico di reagenti chimici? Sembra un’eventualità fantascientifica. Eppure, è proprio ciò che ha sperimentato con successo CarbFix.
L’idea è semplice: iniettare la CO2 in strati basaltici, a suo tempo formatisi per il raffreddamento di lava vulcanica. In soluzione acquosa il gas reagisce con il basalto, formando un precipitato solido stabile (carbonati, calcite). Se poi si aggiunge acido solfidrico la mineralizzazione è ancor più rapida: pochi mesi ed ecco che il gas si trasforma in un costituente della roccia sotterranea.
Certo, occorre costruire le nuove centrali in siti ricchi di basalto, ma questo non è un problema, visto che esso costituisce il 10% delle rocce emerse e gran parte della crosta oceanica. Maggiori difficoltà sono prevedibili per le centrali già esistenti.
In Islanda il costo del processo si aggira sui 30 dollari per tonnellata di CO2 sequestrata, ma questo valore potrebbe quintuplicarsi in altre parti del mondo. Si tratta purtroppo di oneri ancora proibitivi. Tuttavia, se intorno a questo modello si costruiscono un’economia e una regolamentazione che inducano le imprese ad adottarlo, si potrebbe assistere a una svolta come quella che riguarda le energie alternative. Numerose aziende del settore geotermico si sono interessate a questo processo.
Roberto Weitnauer
Su Vimeo è disponibile una breve presentazione (in inglese) del processo di sequestro della CO2 e di mineralizzazione del carbonio. Il video è stato approntato da CarbFix.
Questo il collegamento: https://vimeo.com/119512256