Trent’anni fa accadeva in Valposchiavo e in Valtellina; oggi, con una magnitudo diversa (nella frana della Val Pola si staccarono circa 30 milioni di metri cubi di roccia), accade in Val Bregaglia. Le nostre montagne, i paesaggi che percepiamo come immortali in realtà sono in costante movimento; geologicamente parlando le nostre Alpi sono giovani e come tutti i giovani, nel tempo, cambiano, si trasformano. Anche loro non possono che rispondere alla legge di gravità e lo fanno con frane, smottamenti, dissesti. Come per ogni evento naturale, il fenomeno diventa catastrofico quando coinvolge le comunità che vivono nel territorio; la memoria storica e ora le conoscenze scientifiche ci aiutano a leggere i pericoli prima che diventino rischi, ci consentono di mettere in atto misure di prevenzione e protezione efficaci (lo dimostra in questi giorni la Val Bregaglia).
Eppure nel profondo di tutti noi, resta lo stupore per quanto accade, come se la montagna fosse immutabile, destinata a sopravvivere, uguale a se stessa, a tutti noi. Il disastro naturale diventa per noi, spettatori per lo più del tutto impotenti, una vulnerabilità profonda; mina la sicurezza nei nostri riferimenti, coinvolge direttamente il nostro ambiente, rendendolo improvvisamente inospitale, fa vacillare la certezza di avere la casa della vita e per la vita, ci costringe a misurarci con i nostri limiti. Anche quando non ci coinvolge in prima persona, il disastro naturale apre una breccia nella percezione del tempo, parcellizzandolo, facendo sì che il flusso continuo si arresti bruscamente, costringendoci a ripartire, talvolta a reinventarci. Ambienti familiari, vissuti con intensità e serenità, improvvisamente si trasformano in luoghi ostili, forieri di dolore e disperazione.
Ci vogliono anni per far pace con le montagne che ci hanno strappato ricordi e affetti, per tornare ad amarle, a considerarle compagne di vita; ci vogliono anni per perdonare loro il tradimento. Tempo sì, tanto tempo; la strada è lunga ma la meta è lì, comunque a portata di volontà.
Mentre scrivo, via twitter leggo gli aggiornamenti sulla Val Bregaglia; piove e i fiumi Bondasca e Maira mettono a rischio le strade che collegano la valle, con l’inondazione della carreggiata più recente. La situazione è ancora in evoluzione: accettare di attendere i tempi della natura è forse uno degli sforzi più gravosi che si possa chiedere a chi è coinvolto da questi eventi. Accettare di sospendere il proprio quotidiano, oltre che di stravolgere le abitudini, è chiedere alle persone di mettere in campo doti di resilienza eccezionali. Eppure le genti di montagna, avvezze alla durezza del territorio, dimostrano da sempre capacità davvero speciali.

Non c’è nulla di casuale nella vita in montagna, anche quando è accompagnata dalle comodità odierne; la vita tra i monti ha ritmi e appuntamenti strettamente connessi alle caratteristiche del territorio. Talvolta non ce ne rendiamo conto finché non approdiamo in contesti più affollati; il relativo silenzio di cui godiamo, per esempio, riempito da molti suoni ancora naturali, richiama una dimensione contemplativa che spesso nelle città è annullata dal rumore di sottofondo indotto da auto e attività. La prossimità all’ambiente alpino, alla maestosità delle vette che ci circondano, restituisce profondità e senso alla vita, regalando continuità esperienziale, superando la frammentazione dell’esistenza. Per questo i cambiamenti repentini (anche di modesta entità) delle nostre montagne ci spaventano; c’è sempre una parte di noi che se ne va, che perde un riferimento a cui ha ancorato ricordi ed esperienze di vita. Accade con le frane, le alluvioni ma anche con le trasformazioni dei ghiacciai, soggetti in questi anni a un’ablazione senza precedenti (almeno a memoria di uomo e, soprattutto, a memoria di strumenti scientifici di misura). Ci aggiriamo per i sentieri di una vita con sguardo incredulo: intere vie di ghiaccio sulle pareti nord sono sparite, le lingue di ghiaccio sono smagrite, le morene laterali si ergono imponenti là dove un tempo c’era ghiaccio. Capita pure di non trovare più alcun sentiero perché intere pareti sono crollate (come accadde il 18 settembre del 2004 in Val Zebrù, gruppo Ortles Cevedale, quando un fronte di 500m di roccia e ghiaccio precipitò da quota 3600m a quota 2200m).
Siamo i testimoni un po’ smarriti di tempi geologici che incrociano tempi umani, una fusione inedita che ragione e scienza negli anni ci aiuteranno a comprendere.
Chiara Maria Battistoni