Un’opportunità per riconsiderare in modo critico il nostro ruolo

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Premetto che l’intenzione di questa mia lettera non è di mettere in discussione l’importanza delle norme igieniche imposte dal Consiglio federale, né la natura caratteristica che fa del Covid-19 un virus altamente contagioso. In quanto antropologa, la complessità del fenomeno totale che stiamo vivendo mi interessa particolarmente, perché tocca al contempo diverse dimensioni sociali di una gran parte della popolazione umana: le norme e i valori culturali, i rituali collettivi e personali, le relazioni sociali, il sistema economico, politico, sanitario, professionale, l’informazione scientifica, mediatica ecc.
La mia intenzione con questo articolo è di promuovere in parallelo alla necessità di contegno dalla parte della popolazione in questo momento di crisi, la necessità di uno sguardo critico e distante verso la situazione particolare che stiamo vivendo. L’approccio critico permette di difendersi dalla realtà, così come ci viene trasmessa e rappresentata, che sia attraverso il dispositivo politico, mediatico, statistico ecc.

Incomincio con le cifre che, com’è già stato rilevato da Serena Bonetti nella sua recente lettera aperta, hanno un ruolo centrale nella rappresentazione di questa pandemia e crisi sociale che stiamo vivendo. La scelta di comunicare attraverso delle cifre “spaventose” è un’offensiva che ha molto successo nel suo obiettivo di far passare un messaggio urgente. Il problema è che queste cifre vengono poi messe in relazione tra di loro, utilizzate per fare delle statistiche, calcolare delle percentuali e comparate con altre cifre di altri paesi… Il mio parere è che non si presti abbastanza attenzione al significato scientifico di queste cifre, alla pertinenza ad esempio nel comparare un tasso di mortalità di un paese con un altro e alla conseguenza che può avere un’informazione non completa sull’interpretazione che le persone fanno del fenomeno che stiamo vivendo. Il fatto di comunicare la spaventosa crescita della curva dei cosiddetti “nuovi casi”, ad esempio, può recare a un malinteso. Precisando che l’aumento dei “casi” non sta solo in relazione all’attività contagiosa del virus, ma anche all’aumento dei test effettuati, si potrebbe spiegare un comportamento in parte logico di questa curva in crescita. Se in un primo tempo della crisi, l’offensiva statistica è utile nel sensibilizzare le persone alla gravità della situazione, in un secondo tempo sarebbe più salutare informare la popolazione anche da un punto di vista qualitativo ed evitare di coltivare un clima sociale angosciante. Infatti, l’abuso di queste cifre semina il panico attraverso i media colpendo le difese immunitarie delle persone più sensibili che in questo momento dovrebbero al contrario essere preservate.

La strategia dell’isolamento della popolazione, per lottare contro la contagiosità del virus, è un altro punto su cui vorrei brevemente soffermarmi. Come l’ha spiegato più volte il consigliere federale Alain Berset, l’obiettivo delle norme straordinarie istituite in questo periodo servono a rallentare il virus e non a bloccarlo. Quest’ultima possibilità è stata valutata, in un primo tempo, ma è poi stata scartata perché non realizzabile. Rallentare il virus permetterebbe dunque di evitare di sovraccaricare il settore ospedaliero per assicurare un trattamento equo di tutte e tutti i pazienti. Ciò nonostante, le norme di isolamento quasi totale che sono state imposte alle cosiddette “persone a rischio”, danno l’illusione a chi è legato affettivamente a queste ultime di poter fare tutto il possibile per evitare il loro eventuale decesso. Ciò è vero nel caso in cui una persona a rischio si trovasse in uno stadio avanzato della malattia e non potrebbe dunque essere curata a causa della saturazione del sistema sanitario. Il rischio legato al virus non può però essere azzerato, vista l’impossibilità: di eradicarlo dall’ecosistema terrestre e di isolare totalmente una persona a lungo termine. Dunque, trovo che sia importante alleviare le persone dal fardello di responsabilità che si portano rispetto la vita o la morte delle “persone a rischio” di cui si occupano. Trovo inoltre che sia oltraggioso usare una strategia che si fonda su una responsabilità, che sia civile o personale, che viene in quanto causa associata ai decessi, che sono causati invece dalla presenza del virus nel corpo di queste persone. Per le persone più sensibili, portare una responsabilità così grande può provocare ansia, paura e senso di colpevolezza. Per una volta che non si tratta di una guerra tra essere umani, almeno lo spero, non prendiamoci più responsabilità di quello che riusciamo a portare in quanto individui e società.

Che ne è inoltre della prevenzione in questa situazione di urgenza sanitaria che stiamo vivendo? Possiamo davvero solo agire esteriormente per proteggerci, proteggere il prossimo e la collettività quando si tratta di una in-fezione? Con le conoscenze che abbiamo al giorno d’oggi sul funzionamento del sistema immunitario è peccato non considerare gli effetti collaterali dell’offensiva statistica e mediatica, dell’isolamento sociale e della sovraesposizione agli schermi e alle onde elettromagnetiche a cui ci troviamo confrontate-i. Sono già numerose le persone a poter testimoniare in questo momento, che la tecnologia, pur avendo l’impressionante capacità di riprodurre una dimensione virtuale della realtà, non è sufficiente a sostituire tutte le relazioni nella nostra società. La tecnologia è molto utile in questa situazione particolare per salvaguardare le interazioni del nostro sistema sociale sopratutto da un punto di vista logistico. Questo mezzo non dev’essere però idealizzato, perché in alcuni casi rischia di fagocitare la totalità delle nostre energie vitali in attività che rappresentano solo una parte minima delle potenzialità dell’espressione umana. Molte malattie che si osservano soprattutto nelle nostre società “tecnologizzate” sono sopratutto legate al fatto che il corpo umano non è adatto a stare ore e ore seduto davanti a uno schermo o al telefono. In termini di prevenzione, questa situazione di crisi potrebbe essere l’occasione per ripensare alle nostre abitudini alimentari e fisiche, al nostro stato emozionale, ma anche all’importanza delle relazioni sociali e delle attività all’aria nel mantenere le persone in salute.

Malgrado questa mie riflessioni critiche, riconosco le difficoltà che questa situazione di crisi ha portato nella vita di ognuno di noi. Gli impatti sono di natura diversa, c’è qui ha paura di morire o di perdere una persona cara, c’è chi esercitando la propria professione porta delle grosse responsabilità verso la salute dei suoi utenti, della sua clientela e del suo personale, chi teme per la propria situazione finanziaria, quella della sua impresa e dei suoi e delle sue impiegate, c’è chi soffre già a priori di una malattia, di un lutto o di una situazione sociale precaria che questo Covid­19 e le sue conseguenze sociali non fanno che aggravare… e probabilmente non ho detto tutto.

Dato che quella che stiamo vivendo è senza dubbio una situazione di crisi sociale (sanitaria, economica, politica, ambientale che sia), è tempo di reagire individualmente e collettivamente. Sono numerose le cause per cui si può lottare al giorno d’oggi in questa nostra società globalizzata e credo che ognuno sia libero di scegliere la sua lotta individuale e i valori per cui valga la pena lottare.
Mi auguro che dal punto di vista collettivo del cambiamento sociale, anche altre questioni di pari urgenza di quella che tocca questa pandemia, siano considerate e vengano messe sotto i riflettori affinché delle reali soluzioni possano essere attuate (e non solo espresse a livello strategico). La determinazione delle forze politiche e individuali, mosse dalla responsabilità civile e personale verso la salute fisica e economica della popolazione, stanno dimostrando che è possibile adattare i nostri bisogni e riconsiderare le priorità vitali della nostra società globalizzata. È questa l’occasione per noi in quanto società industrializzate, di riconsiderare in modo critico il nostro ruolo all’interno della popolazione umana mondiale e in quanto specie all’interno dell’ecosistema terrestre, per rendersi conto che pur volendo minimizzare il rischio di mortalità dell’essere umano viviamo in un equilibrio precario.

Il Covid-19 potrebbe essere solo la prima di altre pandemie molto contagiose. E che dire delle foreste che bruciano? Del clima globale che si surriscalda? E della qualità della “quarantena” in cui vivono 20’000 persone ai confini dell’Europa?
Con la stessa determinazione di quella dimostrata per l’urgenza Covid-19 è possibile agire come società unita da subito, per risolvere altre problematiche globali urgenti che toccano direttamente la vita degli esseri umani, in quanto seminano panico, sofferenza e morte sulle popolazioni e il loro ambiente vitale. Mi riferisco non solo ai contesti di guerra, di malnutrizione e di discriminazione sociale di altri paesi. Mi riferisco anche agli impatti sui diritti umani e ecologici delle multinazionali (che risiedono in parte anche nel nostro paese) che nuocciono all’ambiente vitale e alla salute delle popolazioni indigene rurali e alle conseguenze della nostro stile di vita industrializzato sul cambiamento climatico, l’inquinamento e il suo impatto sulla popolazione globale e la salute dell’individuo.
Dobbiamo avere il coraggio di scegliere tra: continuare ad illuderci di poter adattare il nostro ambiente a nostra immagine e somiglianza e poter ancora sopravvivere malgrado ciò, o accettare di doversi adattare in quanto singolo e in quanto popolazione a un ambiente climatico e sociale che sta cambiando, che si sta ribellando…


Lucrezia Oberli-Albertini

1 COMMENTO

  1. Complimenti Lucrezia per questa tua lettera, sobria ma attenta e critica al punto giusto. Condivido il tuo pensiero, il fatto che sono anche altri i problemi globali urgenti da affrontare come società, da subito. Dobbiamo avere il coraggio di scegliere, il momento è propizio.

    cordiali saluti da Le Prese
    Bruno