Luca 2, 1-7
Sermone del 19 dicembre 2021
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Incinta, travolta nel turbine delle vicende politiche del suo paese, Maria si trova, al termine della sua gravidanza, nella città di Giuseppe. A Betlemme dà alla luce il figlio primogenito che lava, fascia e mette a dormire tra le sue braccia.
In questa situazione, l’essenziale è il verbo “partorì”. Essenziale non perché riferito alla ragazza sulla paglia che vive la sua sconvolgente esperienza, ma perché riferito al neonato: quel verbo non esprime il doloroso e gioioso fiorire di una maternità, ma il giungere di una nuova vita nel mondo.
Ecco un primo messaggio: Gesù, la Parola, il figlio di Dio, il Cristo, il Salvatore – per usare le espressioni con cui il Nuovo Testamento parla di lui -, non è soltanto venuto nel mondo, non è solo nato, apparso tra gli esseri della specie umana, uomo tra uomini: è stato partorito.
Questo significa che Gesù è stato inserito nella storia dell’umanità, nella nostra vicenda umana, come ognuno di noi. Mentre i grandi uomini venuti da Dio a rivelare i misteri dell’eternità, quelli che si sono sentiti investiti della missione di far conoscere all’umanità le verità ultime, glissano sull’oscura, troppo umana pagina del parto.
Non è un caso che l’altra grande figura che si contrappone a Gesù nel mondo della religione – il Budda, l’Illuminato -, sia stato trovato da sua madre – narra la leggenda -, sul candore di un fiore di loto. Gesù non era su un fiore, ma su un corpo di donna, sulla paglia di una stalla, sporco e bagnato come ogni nato della sua specie.
Quella nascita ci dice che il mistero divino, il senso ultimo delle realtà di Dio è stato integrato in questa corporalità fatta di parto, di sangue, di pianto. La rivelazione di Dio era lì non perché i personaggi e gli avvenimenti fossero puri, immacolati, perfetti, ma perché erano veri, autentici.
Delusi e insoddisfatti di questa carica di umanità, i cristiani hanno cominciato più tardi a interrogarsi sull’immacolatezza di lui e soprattutto della madre, illudendosi di esaltare e magnificare la rivelazione. Mentre la banalizzavano, perché il senso dell’incarnazione – cioè del Natale -, non sta nella purezza, ma nel fatto che in quel neonato si esprimeva il senso ultimo della divinità.
Quel “partorì” contiene anche un secondo messaggio. Il mistero di Dio consiste in ciò che noi esprimiamo in modo molto inadeguato con il nostro verbo “amare”. Amare significa entrare nelle cose, radicarsi in esse, legarsi alla realtà e alle persone, intrecciare non soltanto i propri sogni, le proprie idee, ma la propria umanità nella realtà del mondo.
Per questo le statue dell’Illuminato sorridono: perché lui sa guardare lontano, non soffre, non piange, non ama, è ormai fuori di tutto, fuori dell’esistenza.
Certo, hanno ragione le filosofie e le religioni quando dicono che per essere felici bisogna dimenticare tutto, non amare niente e nessuno, né se stessi, né gli altri, né Dio, né la vita, né il corpo. Dal loro punto di vista hanno ragione, perché chi vuole essere felice deve sradicarsi dal mondo, da se stesso, dagli altri, dalla storia. Perché amare fa soffrire.
Per questo il mistero di Natale è espresso nel “partorì”, perché la fede non dice: “Fuggi dal mondo, sottraiti alla realtà, alla tentazione, sali a Dio nella contemplazione, purificati dalle contaminazioni della vita quotidiana”; la fede dice: “Sii discepolo e discepola di Gesù partorito nel mondo, entra nelle cose, radicati nelle situazioni, legati alle persone e alle realtà concrete e sappile amare, amando in primo luogo la tua vita, la vita che Dio ti ha dato”.
Il “partorì” ha anche un terzo significato: il bambino non è soltanto entrato realmente nella vita per starci e crescere e radicarsi in essa. Venendo alla luce, ha iniziato una pagina nuova della coscienza umana, ha fatto irrompere qualcosa di nuovo nella vita.
Certo, ogni creatura è qualcosa di nuovo, una possibilità, una “chance”, ma la novità della sua vita dipende dalla presenza del nuovo di Dio, dalla presenza del suo amore.
Amare dell’amore di Dio significa perciò cercare di dare un senso alle cose, renderle autentiche – non accondiscendere, approvare o scusare.
La vita di Gesù, partorita nella storia, non è stata fuga, ma battaglia, carica di passione, di polemiche, di richiami al perdono, di dibattiti per far nascere nuove esistenze, creature autentiche: perciò è stata ricca e completa.
Forse amare significa soprattutto essere pienamente e totalmente se stessi, aderire alla propria condizione umana, assumersi come si è e lasciarsi guidare dallo spirito dell’evangelo, così come Gesù si è lasciato guidare dallo spirito di Dio.
Non bisogna fuggire la vita, ma amarla; non bisogna fuggire le responsabilità, ma assumerle; non espellere da noi l’umano per afferrare il divino, ma radicare il divino nella nostra umanità.
Allora impareremo a partorire cose vere, giuste e buone. E a dare corpo ai progetti e alle speranze di Dio nella nostra umanità.
Pastore Paolo Tognina