Il tormento del buon samaritano

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Luca 10,25-37
Sermone del 9 gennaio 2022

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La parabola del “buon samaritano” si colloca nel quadro di un breve dibattito tra Gesù e un dottore della legge, un teologo. Si tratta di un uomo che all’epoca abbracciava un pensiero religioso progressista. Lo capiamo dalla prima risposta che fornisce a Gesù in merito al contenuto della legge. Dice infatti che la legge si riassume nell’amare Dio con tutto il cuore, tutta l’anima e tutta la forza e nell’amare il prossimo come se stessi.

Con questa risposta, il teologo lascia intendere di avere – per l’epoca – una visione moderna della legge, che combina e lega tra loro amore per Dio e amore per il prossimo: non prima l’uno e poi l’altro, non l’uno staccato dall’altro, ma appunto l’uno e l’altro strettamente legati. Non si arriva a Dio senza il prossimo, e non si accede al prossimo senza Dio. O come dirà più tardi sant’Agostino: “Amando il prossimo, purifichi il tuo occhio in modo da poter vedere Dio”.

Quel dottore della legge, soddisfatto delle proprie convinzioni, certo di sapere quel che c’è da sapere su Dio, ma consapevole che accanto a una buona teologia occorre avere anche una buona morale, chiede a Gesù di dirgli chi sia il suo prossimo. Vuole avere la conferma di essere a posto. “Dimmi chi è il prossimo che devo amare…”.

A questo punto interviene una prima sorpresa: Gesù non risponde alla sua domanda, ma presenta, attraverso una parabola, un approccio diverso, che scombussola il quadro. Infatti, al termine del racconto non fornisce un identikit del suo prossimo – quello che il teologo si aspettava invece di ottenere -, ma chiede al dottore della legge: “Chi è stato il prossimo dell’uomo ferito”? In altre parole, Gesù rovescia i ruoli. La domanda, a questo punto, non è più: “Chi è il mio prossimo”? Ma diventa: “Sarò io in grado di essere il prossimo dell’altro”?

L’interpretazione successiva di questa parabola di Gesù, nell’ambito della chiesa cristiana, spesso non ha seguito quel rovesciamento di prospettiva. Il racconto del buon samaritano è stato usato piuttosto per costruire il modello della carità cristiana. Ridotto all’essenziale: fate come il samaritano, aiutate chi è in difficoltà.

Della parabola si ricorda il fatto che Gesù prende uno straniero come modello da seguire – e non è la prima volta che Gesù indica in un emarginato secondo la mentalità comune del suo tempo un esempio da imitare; e che critica le autorità religiose del suo tempo – anche questo un tema che ricorre più volte, ricorderete ad esempio i “guai a voi” scagliati contro i religiosi definiti “sepolcri imbiancati”. E si sottolinea in particolare l’esemplare intervento del samaritano che aiuta il ferito, lo cura e lo porta fino a una locanda perché possa riposare e riprendersi.

Non è una lettura sbagliata. E non è poco se dal racconto del samaritano deduciamo un forte appello a metterci al servizio di chi si trova nel bisogno. Ma in questo episodio c’è di più di un’esortazione a mettere in piedi un servizio diaconale.

Consideriamo nuovamente i protagonisti di questa parabola. Ci sono altre sorprese che ci attendono.

Possiamo squalificare il dottore della legge, il teologo, ritenendolo un presuntuoso esponente della sua categoria? Credo che dovremmo usare una certa cautela, perché per molti versi ci assomiglia – o noi assomigliamo a lui. Non siamo anche noi, a volte, orgogliosi delle nostre convinzioni, sicuri di essere esponenti di un cristianesimo moderno e illuminato? Non ci avviciniamo anche noi, a volte, al testo biblico certi di trovare solo conferme di ciò che comunque già pensiamo, poco disposti a lasciarci mettere in discussione, desiderosi solo di essere lasciati in pace, convinti di essere brave persone?

E i due religiosi che scendevano lungo la strada i quali vedono il ferito ma tirano dritto, e contro i quali puntiamo facilmente il dito definendoli egoisti e indifferenti… Siamo davvero diversi da loro? E hanno davvero torto decidendo di non fermarsi? Dopotutto la legge religiosa è chiara: non si deve toccare un morto, perché è impuro. E quell’uomo steso a terra sembra morto. Non troviamo anche noi buone ragioni per non fermarci ad aiutare chi ci chiede aiuto? Dopotutto non abbiamo tempo, abbiamo altro da fare, potrebbe essere pericoloso, o potrebbe danneggiare la nostra reputazione. Tutti ragionevoli motivi per non fermarsi.

E chi è quell’uomo ferito, sfinito, steso a terra lungo la strada che scende verso Gerico – nella valle che forse è servita da riferimento all’autore del Salmo 23, quello che parla della “valle dell’ombra e della morte” attraverso la quale noi andiamo? Non riconosciamo dei tratti famigliari in quell’uomo sofferente? Non assomiglia anche lui a noi, nei nostri deragliamenti, nei momenti in cui finiamo travolti dalle prove della vita, in cui siamo confusi e disorientati?

E se il samaritano non fossimo noi, ma fosse Gesù che ci viene incontro per risollevarci? Fosse il nostro prossimo di cui abbiamo bisogno per rimetterci in piedi, dal quale accettare un aiuto? Siamo capaci di lasciare per un momento la convinzione di essere noi il samaritano, e di vedere invece le nostre ferite e le nostre crepe, di ammettere che abbiamo bisogno degli altri e dunque di accettare e di afferrare la mano del samaritano che ci viene in soccorso?

È una storia molto umana, quella che ci viene raccontata in questa pagina evangelica. Una storia che parla di misericordia, e che ci mostra che alla radice di tutto c’è il vedere, l’avere pietà e il prendersi cura.

Una storia che parla dell’incontro diretto, personale, in cui io posso essere di volta in volta prossimo per l’altro, o l’altro per il mio prossimo.

Amare Dio significa avvicinarsi a chi incontriamo sul nostro cammino, anche se preferiremmo, per mille buone ragioni, fare finta di niente e proseguire per la nostra strada guardando dall’altra parte.

Ma il prossimo è anche chi ci tende la mano quando siamo noi a essere sfiniti. Saremo in grado di riconoscere la nostra condizione e di accettare l’aiuto di chi si avvicina a noi?

Pastore Paolo Tognina