Rinunciare

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Marco 8,34-35
Sermone del 20 marzo 2022

I culti vengono registrati e si possono riascoltare al seguente nuovo indirizzo:

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Chiamata a sé la folla con i suoi discepoli, Gesù disse loro: “Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua.  Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio e del vangelo, la salverà” (Marco 8,34-35).

Come abbiamo constatato domenica scorsa, queste parole di Gesù sono facili da capire, ma difficili da accettare. Noi viviamo in un’epoca convinta sostanzialmente di due cose: che la felicità derivi dal possedere e che sia la quantità di esperienze accumulate a rendere l’uomo veramente uomo. Detto in altre parole: la felicità deriva dall’accumulo di beni e la realizzazione di sé dall’accumulo di esperienze.

Gesù presenta invece la sua proposta come un cammino inverso: non un accumulare, ma un rinunciare: “Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua”.

Rinunciare è un termine poco apprezzato dalla psicologia moderna che vede nella rinuncia un’inevitabile fonte di frustrazione e di complessi. Eppure la fede nasce dalla rinuncia, trova in essa le proprie radici, si manifesta e vive nel rinunciare. Non c’è fede senza rinuncia. Con un’immagine paradossale, ma molto efficace, Gesù ha detto un giorno ai suoi discepoli: “Se la tua mano è per te occasione di peccato, tagliala e liberatene: meglio entrare storpiato nel regno dei cieli che essere in forma e finire nella geenna, cioè perdere tutto te stesso”.

Perché la rinuncia è così strettamente legata alla fede? Perché è espressione di libertà, e la fede è libertà. Quando sai rinunciare vuol dire che non sei più schiavo, non sei più succube, non sei più condizionato. Se c’è qualcosa a cui non sai rinunciare, significa che tu dipendi da quella cosa, che ne sei in qualche modo schiavo.

Saper rinunciare non è allora un gesto di impoverimento, di riduzione, di asservimento, ma è piuttosto un gesto di libertà, di liberazione, una riscoperta della propria dignità. Io posso fare a meno di questo o di quello, non ne dipendo, sono libero nei suoi confronti. Ecco che la rinuncia è un atto di libertà: chi lo compie, chi lo sa compiere, è più libero di prima.

Oltre a essere un atto di libertà, la rinuncia è anche un atto di forza. Significa che hai la forza sufficiente per non essere condizionato, per non lasciarti condizionare, significa che tieni in mano te stesso e le tue cose, che ne puoi disporre come ti pare meglio.

Proprio perché atto di libertà e di forza, la rinuncia ha avuto un posto di primo piano nell’educazione civica e religiosa del mondo antico e medievale e ha trovato largo seguito anche nelle chiese cristiane.

Basti pensare al monachesimo antico, che poggiava interamente sul principio della rinuncia: rinuncia al mondo, ai piaceri, alla vita, alle soddisfazioni. Ed essendo le cose materiali le prime a cui si può rinunciare, la rinuncia cristiana fu essenzialmente rinuncia al bene materiale.

Anche Pietro Valdo, mercante di Lione, iniziatore del movimento valdese medievale, compie il primo passo della sua conversione in questo spirito, rinunciando alle sue ricchezze. Ed è molto bello il discorso che la tradizione gli attribuisce quando si libera dei suoi ultimi averi: “Voi mi giudicate pazzo, fuori di senno, infelice, mentre sono il più felice degli uomini perché mi sono liberato dei miei padroni, i miei tiranni, quelli che hanno dominato sulla mia vita: i soldi”.

Tutto vero e tutto bello, ma l’essere umano – che è attaccato a se stesso più di quanto non si voglia ammettere – ha fatto della rinuncia una fonte di vanto e di superbia, più che di libertà.

L’uomo che sa rinunciare è consapevole di essere forte, di avere compiuto un atto di forza… e così, nel cristianesimo la rinuncia ha finito col diventare un merito, cioè qualcosa di cui vantarsi, di fronte agli uomini e di fronte a Dio. È bravo chi sa rinunciare, è più bravo degli altri, è più cristiano degli altri. I frati, ad esempio, sono più cristiani degli altri cristiani, più autentici, più vicini allo spirito di Cristo, perché sanno appunto rinunciare.

Ci vorrà Lutero per ricordare che non è vero, che non è la rinuncia a fare la fede, ma è la fede che mette in grado di rinunciare. Ci vorrà Lutero per ricordare che non è rinunciando che si crede, ma è solo credendo che si può rinunciare. E fu Lutero a rimettere al suo posto esatto la parola di Gesù: essere discepoli non significa rinunciare a cose, oggetti, situazioni, beni e privilegi soltanto, ma essenzialmente rinunciare a se stessi.

La Riforma ha capito che ciò che è in gioco, in primo luogo, non è una scelta sul piano della morale – sostituire con una morale migliore una precedente morale peggiore, costumi più elevati e raffinati a costumi degenerati e corrotti. La Riforma ha capito che ciò che è in gioco, in primo luogo, è la fede.

Concretamente questo significa scegliere tra credere in me stesso o credere in Gesù Cristo. Tutto il resto – le scelte etiche, morali, di vita – derivano e sono conseguenza di questa scelta primaria. È da me stesso che Dio mi deve salvare, non dai piaceri del mondo. Il pericolo per la mia libertà sono io. La minaccia non viene da fuori, ma da dentro di me.

Possiamo rinunciare a tutto, a quasi tutto, ma difficilmente rinunciamo alla nostra autonomia. Dimenticare questo porta a mettere nuovamente l’essere umano al centro: magari l’essere umano religioso, pio, benintenzionato, ma sempre e ancora l’essere umano e la sua tenace volontà di non rinunciare a se stesso e di non accettare il dono della libertà che viene da Dio.

Pastore Paolo Tognina