Sacrificare

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Marco 8,34-35
Sermone del 27 marzo 2022

I culti vengono registrati e si possono riascoltare al seguente nuovo indirizzo:

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Chiamata a sé la folla con i suoi discepoli, Gesù disse loro: “Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua.  Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio e del vangelo, la salverà” (Marco 8,34-35).

Queste parole di Gesù, facili da capire, ma difficili da accettare, sono dure e respingono chi le ascolta. Abbiamo cercato di capirne il significato nelle meditazioni delle scorse due domeniche.

Tra l’altro abbiamo detto che questa via proposta da Gesù può essere riassunta in tre atteggiamenti: scegliere, rinunciare, sacrificare. Oggi riflettiamo dunque sul terzo atteggiamento: sacrificare.

Diciamo subito che uno dei termini che più ha contribuito a rendere indigeribile ogni discorso religioso è proprio il termine sacrificio.

È una parola difficile da accettare e da inserire nella nostra visione della vita moderna. È una parola che evoca immediatamente facce tristi, pensieri cupi, sensi di colpa.

C’è chi oggi denuncia pubblicamente i danni causati da una religiosità orientata al sacrificio inteso in questo senso indicando casi concreti di depressione, angoscia, nevrosi. E da più parti si levano voci che chiedono di annunciare un messaggio evangelico più ricco di gioia e di incoraggiamento che di condanna e di rimprovero.

A questo va tuttavia aggiunto il fatto che noi viviamo oggi immersi in una società che è profondamente segnata – in ogni sua espressione sociale, economica e politica – da una diffusa cultura del sacrificio. Viviamo in una società che coltiva la psicosi del sacrificio, in cui cresce rigogliosa una industria del sacrificio. Pensiamo solamente allo sport, che trae il suo fascino dalla carica di sacrificio di chi lo compie.

A volte sembra di vivere una situazione schizofrenica, divisa tra disprezzo del sacrificio, da un lato, e ricerca del sacrificio ad ogni costo, dall’altro.

Di fronte a questa situazione e all’ambiguità del termine sacrificio, bisognerà fare lo stesso ragionamento che abbiamo fatto nel corso delle precedenti riflessioni: se Gesù chiede di fare dei sacrifici, è solo e unicamente per indicare dei sacrifici autentici, delle scelte che producano vita e che rechino aiuto. E lo dice con un riferimento esplicito alla sua esperienza: “prendere la propria croce”.

Ora, portare la propria croce non significa sopportare i dolori della vita, le difficoltà, le tristi vicissitudini che in un modo o nell’altro oscurano il cammino di tutti – chi più, chi meno. Prendere la croce significa fare come Gesù: essere disposti a dare tutti se stessi, sacrificare la propria volontà per sottomettersi a quella del Signore, ammettere che egli tracci la nostra strada, il nostro destino.

Detto in poche parole: chi non è disposto a portare la propria rinuncia fino al sacrificio di sé, non è discepolo di Cristo.

Ma che cosa significa, questa rinuncia a se stessi? E come può ad esempio rinunciare a se stessa una persona che non ha mai avuto nemmeno la forza di accettarsi, di prendere in mano la propria vita?

Se così fosse, se Gesù chiedesse una sorta di mortificazione, non avrebbe parlato e agito come ha parlato e agito. Egli si rivolge a tutti, con molta serietà, certo, e pienamente consapevole di quello che dice, ma non come uno che voglia fondare una religione di élite, una setta riservata a pochi eletti capaci di vivere a stratosferiche altezze spirituali. Quello che dice, lo dice a della gente come siamo tutti noi, né più intelligenti, né più spirituali.

Ciò che Gesù chiede non è un modo di vivere eccezionale, unico. Non è – per usare un termine alpinistico – un sesto grado dello spirito. No, è il camminare per la strada di tutti, ma imparando a camminare. Quella di Gesù è una scuola di cammino, una scuola di vita.

Scegliere, rinunciare, e anche sacrificarsi, non sono sinonimi di perdere, amputare o morire, come alcuni sostengono. Al contrario, sono sinonimi di libertà, responsabilità e maturità, e anche di forza, di crescita e di umanità.

Gesù, che ha saputo scegliere e sacrificarsi, non è stato meno uomo di tanti nostri contemporanei. Non ha vissuto una vita amputata, pur non avendo sperimentato tutto il vivibile. Anzi, il suo è un invito forte per una vita vissuta in modo umano, e non disumano: come dono, e non come possesso; come scambio e relazione e amore per l’altro, e non come perenne ricerca della propria sicurezza, e della conferma della propria ragione e del proprio diritto; come libertà di ricerca, e non come schiavitù delle proprie angosce e paure; come vita aperta alla fiducia.

Ciò a cui Gesù ha rinunciato – e a cui invita ciascuno di noi a rinunciare – è tutto ciò che è ostile alla vita, alla condivisione, alla crescita umana, alla giustizia.

Sacrifica ciò che ti impedisce di essere libero. E per fare questo, cammina seguendo le tracce di Gesù.

Pastore Paolo Tognina