Nella nostra vita di fede, si ride?

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Sermone del 4 settembre 2022

I culti vengono registrati e si possono riascoltare al seguente indirizzo:

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Soltanto l’essere umano, tra gli animali, ride (e piange). E in questa sua manifestazione, riflette un’ampia gamma di sentimenti. Il fenomeno del riso è ricco di sfaccettature: c’è lo scoppio della risata sincera e la risata maligna, il riso allegro e quello amaro, il riso superficiale e quello scettico, il riso contagioso della gioia condivisa e la risata di scherno che divide.

Chiediamoci: se ridiamo, nella nostra vita di chiesa, nella nostra vita di credenti, di che cosa e di chi ridiamo? E perché?

Una prima sorpresa: da alcuni decenni si moltiplicano le ricerche sul rapporto tra la fede e la gioia nella Bibbia e nella vita della chiesa, e su come vengano considerati e vissuti il riso, la giocosità, la manifestazione allegra.

A questo proposito, va subito detto che l’umorismo e l’ilarità, nella storia della chiesa, non abbondano. Nell’insieme, il riso e la festosità sono stati spesso criticati, soffocati. L’atmosfera ecclesiastica è stata a lungo tendenzialmente seria, a volte grave, a tratti addirittura cupa. Una situazione che, almeno per quanto riguarda il medioevo, è esemplificata nel romanzo di Umberto Eco, “Il nome della rosa”, al cui centro sta la lotta per tenere nascosta al mondo l’esistenza di un antico trattato sul riso.

Altra sorpresa emerge se consultiamo una chiave biblica: i passi nei quali ricorrono i termini “riso” o “ridere” sono pochissimi. Inoltre, nella maggioranza dei casi si tratta di un riso negativo: il riso dello stolto, o il riso schernitore, il riso scettico. Soltanto nella vicenda che porta alla nascita di Isacco prorompe l’allegro riso liberatorio.

Certo, non ci si deve fermare al fatto formale del ricorrere o meno di questi termini: dovunque nella Bibbia appare la gioia. Eppure questa povertà di testi espliciti conferma che il riso è un moto carico di tutte le nostre ambiguità.

Se ora ci volgiamo a Gesù, che cosa constatiamo? I Vangeli parlano in due occasioni del pianto di Gesù – davanti alla tomba di Lazzaro (Giovanni 11,34) e su Gerusalemme cieca e ribelle (Luca 19,41) -, ma non ce lo presentano mai sorridente.

Anche qui, l’assenza dei termini non è di per sé decisiva e possiamo immaginarlo sorridere guardando i gigli di campo, o osservando il volo degli uccelli o le frotte di bambini vocianti nel gioco, o ancora a tavola per la gioia dell’amicizia e della comunione. A volte Gesù può avere avuto un riso ironico – quando nei suoi gesti o nel suo insegnamento affiora l’ironia, lieve o sferzante, propria dei profeti dell’Antico Testamento -, di certo però è difficile immaginare un Gesù ridanciano, anche se non deve essere apparso neppure tetro e cupo, o eccessivamente severo. Una risata di Gesù non ce la immaginiamo, non perché “non sta bene”, ma perché non possiamo evitare di chiederci di che cosa avrebbe potuto ridere… Di un popolo duramente asservito? Di una classe dirigente, anche e soprattutto religiosa, che lasciava il popolo “come pecore senza pastore”? Dell’incredulità di religiosi e irreligiosi? Della mafia pubblicana e della sempre fiorente prostituzione? Dei bambini sottoposti allo sfruttamento in un mondo che conosceva il lavoro minorile? Dell’incomprensione che si sentiva addosso, da parte dei suoi stessi famigliari, e anche fra i suoi discepoli e amici più intimi? Dei malati, di tutte le possibili infermità fisiche e psichiche che si manifestavano nella vita di ogni giorno, nelle case, per le strade, nelle piazze? Per uno che aveva il suo sguardo, la sua sensibilità, c’era davvero poco da ridere.

Durante tutta la sua vita, e di certo nel triennio della sua attività pubblica, Gesù ha concepito, vissuto e descritto il suo percorso come una via verso la croce. Saranno i suoi nemici a ridere, malignamente, fino alla fine.

Eppure la vita di Gesù non è tragica. Anzi, l’impressione è che la consapevolezza di compiere “l’opera che il Padre mi ha affidato” lo abbia costantemente illuminato. I Vangeli riferiscono che Gesù ha esultato quando i discepoli lo hanno riconosciuto e confessato – almeno parzialmente, pur senza capire fino in fondo ciò che stavano facendo -, quando ha capito che queste cose, nascoste “ai savi e agli intelligenti”, Dio le stava rivelando “ai bambini”; quando la malattia, la morte, gli elementi scatenati hanno dovuto mollare almeno temporaneamente la presa sotto la sua azione; quando la salvezza è entrata, con lui, in una casa, in una vita: e salvezza vuol dire cambiamento, riorientamento del modo di pensare e di agire, vuol dire pace e riconciliazione con se stessi, con Dio e con il prossimo, vuol dire guarigione e resurrezione.

Gesù non si fa illusioni circa la fine che lo aspetta, e sa che da un punto di vista umano la sua esistenza è fallita. Eppure afferma, forse più di una volta: “Beati voi che ora piangete, perché riderete”. E il primo e forse più vero beato è stato lui, capace di vivere questa beatitudine, questo movimento dal pianto al riso gioioso, senza più ombre. È la beatitudine della fede che sfocia nella beatitudine della visione. Come e quando Dio vorrà. Ma lo vuole, e questo è ciò che conta, ciò che niente e nessuno potrà togliere.

Ha scritto Lutero, nella prefazione di un innario: “Evangelo vuol dire buona novella, della quale si canta, si parla e si è lieti, poiché Dio ha reso gioioso il nostro cuore per mezzo di suo figlio, che egli ci ha dato per la redenzione nostra dal peccato, dalla morte e dal diavolo. Chi possiede questa fede non può che cantare con gioia e diletto, affinché anche gli altri sentano e vengano”.

Il teologo protestante contemporaneo Otto Betz, ha scritto: “Chi ha capito qualche cosa dell’evangelo, non dovrebbe avere difficoltà a ridere. Ci è stata promessa la salvezza, ci è stato donato il perdono, ci è stata annunciata la felicità: perché allora dovremmo darci alla malinconia?”.

Se questa gioia, questo riso, regnano poco nelle nostre chiese e nelle nostre vite, è segno che ci siamo allontanati dalle fonti della gioia, dalla scoperta e dalla consapevolezza costante e appassionante che in Gesù “il regno di Dio si è avvicinato”. E allora, è tempo di tornare a questa gioia.

Pastore Paolo Tognina