Qualche mese fa, al calar del sole, camminavo lungo la pista pedonale che attraversa il Pian dell’Alute, a Bormio, lasciando che fossero i pensieri e le emozioni a stabilire il ritmo del passo; non ero alla ricerca di una prestazione sportiva, cercavo solo il piacere di una rinnovata immersione nella natura che tanto amo, a due passi da casa. Gli occhi non si stancavano di fissare la cresta di Reit con la sua immensa lente di gesso e là, più lontano, le vette del Gran Zebrù e il massiccio del Cristallo, con il Confinale a fare da sentinella per l’accesso alla Valfurva. Montagne così familiari da sentirmele dentro, profili che percepisco prima ancora di osservarli. Profili che quest’anno, più che in altre estati, raccontano di un inverno avaro di neve e ghiaccio.
Le montagne più alte si sono cambiate d’abito, hanno indossato una mimetica e quasi si confondono con le cime più basse, quelle che non hanno mai avuto mantelli bianchi nelle stagioni calde. Dominano i toni del marrone, nelle infinite variazioni, che non conoscevo e in fondo non avrei mai pensato di scoprire. Anche così, però, hanno il loro fascino, più aspro, vagamente lunare, ma pur sempre un fascino da scoprire, che è necessario imparare ad apprezzare. Che siano o meno i cambiamenti indotti dalle trasformazioni climatiche (pochi forse ricordano che tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento queste stesse vette furono interessate da una modesta, localizzata avanzata dei ghiacci), sta di fatto che in poche decine d’anni ambienti alpini di alta montagna si sono trasformati, diventando altro; sempre alta montagna, anche più pericolosi, ma radicalmente diversi.
Ebbene, se la tendenza che osserviamo alle nostre latitudini è di radicale e rapido scioglimento dei ghiacci, c’è una zona dell’Asia Centrale in cui questa tendenza pare non esistere. Si tratta del massiccio del Pamir, in Tagikistan, là dove convergono catene montuose tra Pakistan, India e Cina; qui i ghiacciai sono stabili se non in crescita. Aree difficili da raggiungere, osservate soprattutto con i satelliti, aree che i glaciologi hanno però definito come “anomalia del Pamir Karakorum”, oggetto di uno studio congiunto Università di Friburgo, Istituto Polare Svizzero (Spi) e Wsl (www.wsl.ch), l’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio. Swiss Info ne ha parlato lo scorso 30 luglio, con un’interessante intervista al capo progetto, la dottoressa Francesca Pellicciotti, glaciologa del Wsl.
Gli scienziati impegnati a spiegare l’anomalia lavorano oggi su tre diversi scenari che potrebbero aiutare a spiegare il fenomeno: una riduzione complessiva delle temperature estive in quell’area, legata ai cambiamenti in atto nei monsoni che interessano l’Asia; un aumento delle precipitazioni invernali e primaverili, per effetto delle interazioni tra i monsoni e le perturbazioni dell’Occidente; infine la presenza a sud delle catene montuose di una delle aree irrigate più vaste al mondo, interamente agricola e in grado di produrre abbondante evaporazione che alimenta le precipitazioni nevose in alta quota. In attesa che gli studi condotti contribuiscano a trovare spiegazioni al fenomeno, i tre scenari delineati potrebbero essere forieri di spunti anche per le nostre latitudini. E chissà che, ancora una volta, pensare in chiave Glocal (globale + locale; locale + globale) non sia la strada più logica per affrontare la nuova realtà e scoprire il “nuovo abito” delle nostre montagne.