Il 6 agosto 1945, alle 8.15, sopra la città giapponese di Hiroshima esplose la prima bomba atomica. Sganciata dalla fortezza volante B-29 “Enola Gay”, provocò un’onda infuocata di 6000 gradi centigradi che uccise, in pochi secondi, decine di migliaia di persone. Tre giorni dopo, un secondo ordigno colpì la città di Nagasaki (il bersaglio prescelto era un altro, ma le condizioni atmosferiche fecero preferire Nagasaki). I morti, nelle due città, furono oltre 300’000, comprese le vittime delle micidiali radiazioni rilasciate dalle due esplosioni.
Il mito e la realtà
A quasi ottant’anni da quegli avvenimenti – mentre nelle sale cinematografiche il film “Oppenheimer” celebra la figura del “padre” dell’atomica, e mentre il presidente Putin evoca ormai quotidianamente la minaccia nucleare -, il bombardiere “Enola Gay”, restaurato, è esposto nel Museo dell’Aviazione e dell’Esplorazione dello Spazio di Washington.
Accanto all’aereo non c’è nessuna indicazione che spieghi al visitatore che cosa è successo a Hiroshima e Nagasaki quando gli ordigni sono esplosi. La direzione del Museo voleva bensì esporre alcuni reperti raccolti tra le rovine delle città, ma associazioni dei veterani e politici americani sono riusciti a impedirlo. Mostrare al pubblico un rosario fuso dal calore dell’esplosione, un’immagine bruciacchiata della madre di Gesù, brandelli di vestiti di bambini e una sonda radio avrebbero potuto far nascere scomode domande.
Come conciliare infatti l’immagine del nemico giapponese – barbaro, razzista e pagano -, con i resti carbonizzati di oggetti della devozione cattolica, raccolti nel quartiere di Urakami, a Nagasaki, dove sorgeva la più grande cattedrale cattolica del Giappone? E come conciliare l’immagine, spaventosa e nel contempo affascinante, del fungo atomico, con la sconvolgente realtà dell’atroce morte di migliaia di bambini, vittime innocenti di un attacco terroristico? E come impedire che qualcuno si ponesse domande sulle vere finalità dei lanci atomici su Hiroshima e Nagasaki alla vista di una sonda radio, gettata insieme alla bomba allo scopo di raccogliere dati scientifici sull’esplosione?
Un’arma di pace?
Il ricordo dei bombardamenti atomici sul Giappone mediato dai libri di storia, dai media e dal cinema, ha contribuito a diffondere il mito della bomba atomica come arma che ha portato la pace e ha contribuito a porre fine alla Seconda guerra mondiale. Quando il Giappone dichiarò la resa, il 14 agosto 1945, il presidente americano Harry Truman si affrettò a dichiarare che le bombe atomiche avevano accelerato la fine delle ostilità e reso superfluo uno sbarco in Giappone che sarebbe costato la vita ad almeno 500’000 soldati americani.
In realtà, più che l’ultimo atto del secondo conflitto mondiale, le bombe di Hiroshima e Nagasaki sono state l’atto inaugurale della “guerra fredda”. Non appartengono alla Seconda guerra mondiale – praticamente già finita (il Giappone, isolato dopo la resa tedesca, aveva segnalato la sua intenzione di arrendersi) – ma al successivo confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica: il bombardamento atomico doveva soprattutto intimorire Stalin e ribadire le mire americane sull’Estremo Oriente.
Un mito, quello dell’atomica “arma di pace”, non disgiunto da riferimenti religiosi e blasfemi deliri di onnipotenza: non a caso il test atomico condotto nel deserto del New Mexico, prima dell’attacco sul Giappone, fu denominato “progetto Trinità”.
La bomba sotto casa
Oggi, nelle basi aeree di Ghedi, nei pressi di Brescia, e di Aviano, in Provincia di Pordenone, sono stoccate complessivamente una quarantina di bombe atomiche americane. La potenza di ogni singolo ordigno è di circa 50 kilotoni, dalle tre alle cinque volte superiore alla bomba che venne sganciata su Hiroshima. I piloti di speciali squadriglie di Tornado, che saranno presto sostituiti dai nuovi F-35, stazionati nelle due basi, sono incaricati del trasporto – in caso di impiego effettivo – di quelle bombe atomiche. A protestare contro la presenza di quell’arsenale atomico c’è anche un prete coraggioso, don Fabio Corazzina, testardamente pacifista, il quale ritiene immorale il possesso di simili armi. La posizione di don Fabio è in linea con quanto affermato nel Trattato internazionale sulla proibizione delle armi nucleari, votata nel luglio del 2017, a New York, dai delegati di 122 Stati rappresentati alle Nazioni Unite. Dalla sua entrata in vigore il 22 gennaio 2021, il Trattato – al quale peraltro la Svizzera non ha ancora aderito – vieta lo sviluppo, i test, la produzione, il trasferimento, il possesso, l’utilizzo di armi nucleari e la minaccia di utilizzarle.
Abolire le armi atomiche
Quel Trattato è frutto del lavoro della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari (ICAN). Nel dicembre 2017, a Oslo, all’ICAN è stato consegnato il Premio Nobel per la Pace, in riconoscimento del lavoro “per attirare l’attenzione sulle catastrofiche conseguenze umanitarie di qualsiasi uso di armi nucleari” e degli “sforzi pionieristici per raggiungere un divieto di tali armi basato su un trattato”.
A dirigere la Campagna internazionale è una donna, Beatrice Fihn, la quale non si stanca di condannare la retorica atomica che torna a farsi sentire dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Commentando i discorsi del presidente russo, Fihn ha affermato che “le minacce nucleari sono inaccettabili in qualsiasi momento e da chiunque provengano, e quelle di Putin aumentano il rischio di escalation verso un conflitto nucleare. Tutto ciò è incredibilmente pericoloso e irresponsabile. Ogni minaccia nucleare obbliga a una scelta: l’escalation verso una potenziale catastrofe globale o il rifiuto totale delle armi nucleari”.
Mai più
A quasi ottant’anni dalla distruzione di Hiroshima e Nagasaki, e mentre il ricordo di quegli orrori si va affievolendo – malgrado le testimonianze di scrittori come Takashi Nagi (Le campane di Nagasaki), o del premio Nobel Kenzaburo Oe (Pioggia nera) e altri – rimangono molti e inquietanti interrogativi sull’impiego di un’arma il cui uso, ai primi di agosto del 1945, è stato certamente poco rilevante dal punto di vista militare, ma terribilmente incisivo sotto il profilo del terrore.