Matteo 21,23-32
Sermone del 27 agosto 2023
Quando [Gesù] giunse nel tempio, i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo si accostarono a lui, mentre egli insegnava, e gli dissero: «Con quale autorità fai tu queste cose? E chi ti ha dato questa autorità?» Gesù rispose loro: «Anch’io vi farò una domanda; se voi mi rispondete, vi dirò anch’io con quale autorità faccio queste cose. Il battesimo di Giovanni, da dove veniva? Dal cielo o dagli uomini?» Ed essi ragionavano tra di loro: «Se diciamo: “dal cielo”, egli ci dirà: “Perché dunque non gli credeste?” Se diciamo: “dagli uomini”, temiamo la folla, perché tutti ritengono Giovanni un profeta». Risposero dunque a Gesù: «Non lo sappiamo». E anch’egli disse loro: «E neppure io vi dico con quale autorità faccio queste cose.
«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si avvicinò al primo e gli disse: “Figliolo, va’ a lavorare nella vigna oggi”. Ed egli rispose: “Vado, signore”; ma non vi andò. Il padre si avvicinò al secondo e gli disse la stessa cosa. Egli rispose: “Non ne ho voglia”; ma poi, pentitosi, vi andò. Quale dei due fece la volontà del padre?» Essi gli dissero: «L’ultimo». E Gesù a loro: «Io vi dico in verità: I pubblicani e le prostitute entrano prima di voi nel regno di Dio. Poiché Giovanni è venuto a voi per la via della giustizia, e voi non gli avete creduto; ma i pubblicani e le prostitute gli hanno creduto; e voi, che avete visto questo, non vi siete pentiti neppure dopo per credere a lui. (Matteo 21,23-32)
Gesù racconta la parabola dei due figli dopo uno scontro con i leader religiosi che si rifiutavano di credere in lui. Gesù afferma che essi, pur essendo i rappresentanti ufficiali della religione, in pratica sono degli increduli; e che invece gli uomini e le donne più disprezzati e meno “religiosi” stanno diventando più credenti di loro, in quanto accettano Gesù come il Cristo, e Giovanni Battista come suo precursore.
Il padre della parabola è Dio, i due figli rappresentano due parti del suo popolo: da una parte ci sono le persone religiose, che dicono “sì” a Dio, e proclamano la loro fede, ma poi, in pratica, non accettano né Giovanni Battista né Gesù; dall’altra parte ci sono i peccatori e miscredenti, i cui peccati e le cui parole sono un continuo “no” detto in faccia a Dio: ma, proprio al tempo di Gesù, questi uomini e queste donne si ravvedono, e, accettando la fede, “precedono nel Regno di Dio” tutti gli altri.
Sarebbe facile liquidare questa parabola come una condanna senza appello di Israele: il primo figlio rappresenterebbe il popolo d’Israele, che è stato il primo a riconoscere la voce di Dio e ha creduto in lui, ma più tardi non ha riconosciuto Cristo e si è tirato indietro; il secondo figlio rappresenterebbe gli altri – i peccatori, i pagani, e dunque anche noi – che hanno creduto e hanno perciò preso il suo posto.
E se invece provassimo ad applicare questa parabola a noi, persone ufficialmente credenti? Anche se diciamo di credere, non assomigliamo a volte al primo figlio? Egli è un uomo di buona volontà, simpatico e generoso, che vuole sinceramente obbedire al padre. Ma la vita è difficile, piena di imprevisti, e tutte le sue buone intenzioni sfumano presto: così egli lascia passare il tempo, e non va a lavorare nella vigna. La sua storia non si ripete a volte nelle nostre vite personali e nella vita delle nostre chiese? Le nostre comunità, composte di persone che dicono di accettare il Signore, non diventano talvolta l’ambiente nel quale il Signore è rinnegato di fatto, anche se invocato a parole? Non corriamo il rischio di essere quelli che dicono: “Signore, Signore”, ma non fanno la volontà del Padre nostro che è nei cieli?
La chiesa è chiamata a una vita disinteressata, a un’opera di riconciliazione, a uno sforzo di liberazione dell’umanità: ma proprio su questa via, altri – come il secondo figlio – spesso ci precedono. Il nostro “sì” è indebolito dal nostro agire incoerente: siamo gli uomini e le donne di Dio, ma il nostro massimo problema è il nostro benessere materiale, la nostra salute e la nostra carriera. Invece di adoperare tutte le nostre energie per formulare una nuova morale, creare un nuovo stile di vita, dare un contributo alla soluzione dei problemi dell’oggi, rimpiangiamo i “bei tempi andati”, la morale del passato, le tradizioni.
Il risultato di tutto questo consiste nel rifiuto che innumerevoli donne e uomini oppongono oggi alle chiese cristiane. Quelli e quelle che voltano le spalle alle chiese non sono semplicemente persone perdute, degradate, “figli e figlie prodighi” che pascolano porci, o che hanno sperperato tutti i loro beni spirituali, o che stanno andando a una rapida rovina: sono il secondo figlio, e hanno spesso una morale molto seria e un impegno continuo.
Gesù diceva ai sacerdoti: “I pubblicani e le prostitute vanno innanzi a voi”. Oggi dice a noi: “I laici e i non credenti vanno innanzi a voi”. Al tempo di Gesù la risposta di fede di pubblicani e prostitute era un segno che doveva smuovere i tradizionali credenti. Oggi la serietà con cui molte persone che si dichiarano non credenti lavorano, raccogliendo talvolta il meglio della nostra stessa eredità, deve smuovere noi: occorre che consideriamo lucidamente questo allontanamento di molte sorelle e fratelli dalle chiese: non possiamo approvarlo, ma possiamo comprenderlo.
Non si tratta innanzitutto di comprendere la psicologia e le motivazioni di queste donne e questi uomini, o di dare peso alle loro “buone ragioni”. Si tratta piuttosto di comprenderli nel loro valore di segno: il fatto che donne e uomini che si dicono non credenti pronuncino a volte una parola più chiara di quella delle chiese sui problemi della xenofobia, della libertà, della democrazia e della pace; o che siano in prima linea sul fronte della difesa delle donne, dell’aiuto agli andicappati, della solidarietà con gli stranieri, della cura e dell’educazione dell’infanzia e della gioventù, lo dobbiamo leggere come un segno che ci vuole scuotere dalla nostra apatia.
E il segno dice sempre qualche cosa da parte del Signore. Dice: “Io conosco le tue opere, tu non sei né freddo né fervente” (Apocalisse 3,15). Dice : “Sei stato pesato e sei stato trovato mancante” (Daniele 2,23). Sveglia!
Dopo avere riconosciuto il segno, non è detto che la via da seguire appaia in modo chiaro. Ma di certo possiamo cercarla, nella fiducia che la troveremo.
Dovremo pertanto, in tutta umiltà, dire qualcosa agli increduli: li dobbiamo chiamare al ravvedimento. Ma come faremo se prima non ci saremo ravveduti?
E possiamo aggiungere: i due fratelli sono stati divisi per troppo tempo, e ad entrambi manca qualcosa, l’essenziale. Occorre superare lo scisma tra gli uomini e le donne di Dio, spesso ciechi davanti all’umanità e ai suoi bisogni, e gli uomini e le donne dell’azione, che vedono l’umanità, ma sono ciechi davanti a Dio. Si riconcilieranno? Si ritroveranno a lavorare insieme nella vigna del Signore? Nell’attesa di una risposta, cerchiamo di rispondere di “sì” a Dio, e poi anche obbedirgli sul serio.
Pastore Paolo Tognina