Per un cristianesimo ribelle

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Giobbe 23
Sermone del 10 settembre 2023

Giobbe rispose e disse: «Anche oggi il mio lamento è una rivolta, per quanto io cerchi di contenere il mio gemito. Oh, sapessi dove trovarlo! Potessi arrivare fino al suo trono! Esporrei la mia causa davanti a lui, riempirei d’argomenti la mia bocca. Saprei quel che mi risponderebbe, capirei quello che avrebbe da dirmi. Impiegherebbe tutta la sua forza per combattermi? No, egli mi ascolterebbe! Là troverebbe un uomo retto a discutere con lui, e sarei dal mio giudice assolto per sempre. Ma, ecco, se vado a oriente, egli non c’è; se a occidente non lo trovo; se a settentrione, quando vi opera, io non lo vedo; si nasconde egli a sud, io non lo scorgo. Ma la via che io batto egli la conosce; se mi mettesse alla prova, ne uscirei come l’oro. Il mio piede ha seguito fedelmente le sue orme, mi sono tenuto sulla sua via senza deviare; non mi sono scostato dai comandamenti delle sue labbra, ho custodito nel mio cuore le parole della sua bocca. Ma la sua decisione è una; chi lo farà mutare? Quello che desidera, lo fa; egli eseguirà quel che di me ha decretato; di cose come queste ne ha molte in mente. Perciò davanti a lui io sono atterrito; quando ci penso, ho paura di lui. Dio mi ha tolto il coraggio, l’Onnipotente mi ha spaventato. Questo mi annienta; non le tenebre, non la fitta oscurità che mi ricopre. (Giobbe 23)

La scorsa domenica, riflettendo su questo testo, abbiamo visto che Giobbe si lamenta perché Dio non è come dovrebbe essere e perché fa il contrario di quello che dovrebbe fare. Oggi ci soffermiamo su altri due aspetti del capitolo 23: la ricerca di un Dio che non si trova, e la scoperta di un modo ribelle di essere cristiani.

«Oh, sapessi dove trovare Dio!», dice Giobbe. «Potessi arrivare fino al suo trono! […] Egli mi ascolterebbe, troverebbe un uomo retto a discutere con lui, e sarei dal mio giudice assolto per sempre. Ma ecco, se vado ad Oriente egli non c’è, se ad Occidente non lo trovo; se a Settentrione, quando vi opera, io non lo vedo; si nasconde egli a Sud, io non lo scorgo» (vv. 3,7-9).

Qui Giobbe dice esattamente il contrario di quello che dice il Salmo 139, che afferma: «Signore, […] dove potrei andarmene lontano dal tuo Spirito, dove fuggirò dalla tua presenza? Se salgo in cielo Tu vi sei; se scendo nel soggiorno dei morti, eccoti là. Se prendo le ali dell’alba e vado ad abitare all’estremità del mare, anche là mi condurrà la Tua mano e la Tua destra mi afferrerà» (vv. 5-10).

Secondo il Salmo 139, Dio è dappertutto: dovunque l’uomo vada, Dio è già là che lo aspetta. Giobbe dice il contrario: dovunque io vada, non lo trovo. Non dico che non ci sia; forse c’è, ma io non lo vedo; forse c’è, ma è come se non ci fosse: invisibile, introvabile, inafferrabile.

E proprio questa è una delle grandi domande dell’uomo moderno: non più tanto se Dio esiste o non esiste, ma, se c’è, dov’è? Dove posso accorgermi della sua presenza? Dove posso incontrarlo e sperimentarlo? Dove abita?

Nella storia cristiana, le risposte maggiori a questa domanda sono state due, una di Agostino, l’altra di Lutero.

Quella di Agostino si trova in un passo famoso delle sue Confessioni, che dice così: «Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ecco, Tu eri dentro di me, io stavo fuori: e qui ti cercavo, e sviato qual ero, mi buttavo su queste cose belle che tu hai creato. Tu eri con me, ma io non ero con Te, tenuto lontano da Te proprio da quelle creature che non esisterebbero se non fossero in Te». Ecco la risposta di Agostino: Dove abita Dio? Dentro di te. Non cercarlo lontano, egli è vicino. Non cercarlo fuori, cercalo dentro. Non cercarlo nelle cose, cercalo nella tua anima, perché Dio è l’anima della tua anima.

La risposta di Lutero è diversa: Dove abita Dio ? Dio abita in tutto ciò che non ha apparenza divina; Lutero adopera un’espressione latina facile da comprendere: Dio si manifesta nascondendosi sub contraria specie, cioè «sotto apparenze contrarie».

Dio nasconde la sua divinità nell’umanità di Gesù; la sua gloria nell’umile condizione del figlio di un falegname; la sua potenza nell’estrema fragilità di una parola umana; il suo perdono nella condanna a morte di un innocente; la sua giustizia nell’ingiustizia di una sentenza iniqua; la sua signoria nel più umile dei servizi, come quello di lavare i piedi dei suoi discepoli; il suo corpo lo nasconde nel pane e il suo sangue nel vino della Cena; non c’è nessuna trasformazione, il pane resta pane, il vino resta vino, ma c’è una presenza nuova recata dalla parola potente di Gesù, che crea quello che dice e suscita le cose che non sono come se fossero.

Ma qual è il significato di questo modo singolare di manifestarsi di Dio?

Il primo è che Dio non è evidente, ma è, appunto, nascosto. Come il tesoro che è nascosto nel campo; come la perla che è nascosta nella conchiglia. Dio si nasconde, è nascosto, cioè non è là dove ti aspetteresti che sia, ed è là dove non ti aspetteresti che sia.

Ti aspetteresti di trovarlo seduto su un trono, e invece lo trovi appeso a una croce. Ti aspetteresti di trovarlo attorniato da santi, e lo trovi in compagnia di peccatori. Ti aspetteresti di trovarlo insieme a persone importanti, e lo trovi con persone che non contano nulla e non sono nulla agli occhi del mondo, ma sono molto agli occhi di Dio: gli ultimi che diventano primi.

Giobbe cerca Dio e non lo trova perché lo cerca dove non c’è. Lo cerca a Oriente, a Occidente, nel Nord e nel Sud, lo cerca cioè nello spazio, ma Dio non è nello spazio. Giobbe lo ha cercato dappertutto, ma Dio non è dappertutto. Non ha pensato di cercarlo dentro di sé: forse lì lo avrebbe trovato.

Ma il nascondimento di Dio sub contraria specie, «sotto apparenze contrarie», ha anche un secondo significato: vuol dire che Dio si offre, sì, a noi, ma non è a nostra disposizione; è, sì, con noi e anche dentro di noi, ma non è nelle nostre mani: resta il Signore anche quando si fa servo; resta primo anche quando diventa ultimo; resta Dio anche quando diventa uomo; si avvolge nel mistero anche quando si rivela; resta Dio anche quando diventa in tutto e per tutto «simile agli uomini» (Filippesi 2,7).

Ecco allora il secondo messaggio di questo capitolo: Dio può essere trovato, ma è nascosto: può essere trovato, ma non posseduto.

C’è infine un terzo messaggio. Lo ha colto il filosofo e teologo danese Sören Kierkegaard, in un suo scritto intitolato La ripresa, nel quale si rivolge direttamente a Giobbe in questi termini:

«Giobbe! Giobbe! Giobbe! È vero che non hai detto altre parole che queste bellissime: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!” (1,21)? Davvero non hai detto altro? Nel tuo grande dolore hai continuato a ripetere queste parole? Perché tacesti per sette giorni e sette notti? Che cosa passava allora per la tua anima? […] Veramente non sai dire di più di quello che dicono i consolatori di professione? Veramente non osi dire di più? […] Non è possibile! Quando tutta la vita è franata e s’è ridotta a un po’ di cocci sparsi intorno a te, tu hai osato dire di più. […] Sei diventato la voce di chi soffre, il gemito di chi si sente schiacciato, il grido di chi ha paura, il conforto di coloro che l’angoscia ha reso muti, il testimone fedele di quanto dolore e quanto strazio possono albergare nel cuore di un uomo, un fidato intercessore che, nell’amarezza della sua anima, osa lamentarsi e disputare con Dio. […]

Giobbe indimenticabile! Ti presenti al tribunale dell’Altissimo come un leone ruggente. Forza è nelle tue parole, timore di Dio nel tuo cuore, anche quando difendi la tua disperazione. […] Ho bisogno di te, ho bisogno di un uomo che sappia lamentarsi con Dio».

Anche noi abbiamo bisogno di Giobbe, del suo lamento, della sua protesta, della sua autodifesa. Abbiamo bisogno della sua rivolta, di un modello di cristiano ribelle, che sappia anche dire «No, così non va» e non solo e sempre «Sì, va bene anche così»; un cristiano che sappia anche indignarsi e insorgere contro i soprusi, le prepotenze, le violenze, le ingiustizie. Abbiamo bisogno di Giobbe, noi aspiranti cristiani del 21. secolo, vedendo che ci sono troppi cristiani rassegnati, remissivi, conformisti, che accettano tutto, piegandosi davanti alla realtà senza neppure dire: «Così non va; così non può continuare».

Il cristiano non è solo colui che dice: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore!». Sa anche, come Giobbe, dire altro. Ad esempio, sa rivolgersi a Dio con queste parole: «Signore, capitano molte cose che non corrispondono a quello che io credo di te, a come so che tu sei, a come tu ci hai promesso di essere. Perciò non le capisco. Le devo accettare, ma non le posso approvare. Non posso dire, davanti a te: “Sì e Amen!”. Dico piuttosto: “Non può essere così!”».

Abbiamo bisogno di Giobbe per imparare – non è mai troppo tardi – a essere anche, almeno qualche volta, dei cristiani e delle cristiane ribelli.

Pastore Paolo Tognina