Quando il passato insegna: Sergio Ferrari parla di prigionia e giornalismo

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Il libro “Grand Hotel Coronda” è una testimonianza collettiva scritta da circa 70 ex prigionieri politici argentini che sono stati detenuti nel carcere di Coronda tra il 1974 e il 1979. Questi ex prigionieri erano giovani militanti di vari movimenti popolari, tra cui operai, studenti, insegnanti, contadini, abitanti dei quartieri più umili, cristiani, agnostici, peronisti e appartenenti alla sinistra rivoluzionaria. Oggi sono veterani dell’ultima dittatura civile-militare argentina, sopravvissuti al periodo di terrorismo di Stato che ha dominato il paese tra il 1976 e il 1983.

Questi ex prigionieri si sono riuniti nell’Associazione Civile “El Periscopio” con l’obiettivo di promuovere progetti per il recupero della memoria storica e per cercare verità e giustizia. Nel 2003, hanno pubblicato il libro “Del otro lado de la mirilla”, che rappresenta la loro testimonianza collettiva. Questo libro è stato tradotto in diverse lingue, incluso il francese, e ora è disponibile anche in italiano con il titolo “Grand Hotel Coronda. Racconti di prigionieri politici sotto la dittatura argentina, 1974-1979.”

Abbiamo avuto il piacere di intervistare uno dei co-autori, Sergio Ferrari, sindacalista e giornalista svizzero, arrivato nel nostro Paese come rifugiato politico nel 1983. Il messaggio del libro e di questa esperienza estrema è sempre attuale: con l’unità e la solidarietà, anche il nemico più brutale può essere vinto.

Buongiorno Sergio, potresti condividere con i nostri lettori la tua esperienza durante i tre anni di prigionia nel carcere argentino di Coronda? Quali sono stati i momenti più difficili che hai affrontato?

Per quanto mi riguarda credo che la morte del primo compagno, Gringo Boicar, a cui abbiamo dedicato il libro, sia stata l’esperienza più dura perché ero molto vicino a lui nel carcere. Sono mancate le cure mediche: aveva la pressione alta, è stato male, abbiamo chiamato la guardia, che non è venuta in tempo… e dopo è stato tardi. In seguito a questo fatto, con i compagni, abbiamo fatto sciopero della voce per tre giorni. Il padiglione era completamente senza voce: è stato impressionante anche per noi stessi.
Un’altra esperienza dura è stata con mio fratello Claudio, con il quale sono stato arrestato e messo nella stessa cella. Ha provato a suicidarsi con una grande quantità di medicine; quando l’ho trovato incosciente ho chiamato la guardia che lo ha portato nel piccolo ospedale della prigione. Dopo due giorni è tornato alla cella e abbiamo potuto parlare: con tristezza molto profonda ha detto che voleva suicidarsi perché temeva che un giorno avrebbe potuto tradire la mia fiducia; preferivo morire prima, ha detto. Qualche settimana dopo è stato mandato in un padiglione meno brutale. Per lui si trattava del secondo tentativo di suicidio, il primo era avvenuto in un altro carcere.

Nel libro “Grand Hotel Coronda,” si racconta il sistema clandestino di solidarietà creato dai detenuti politici. Puoi approfondire questo aspetto e spiegare come avete gestito questa rete di supporto all’interno del carcere?

L’obiettivo delle guardie era la distruzione fisica, psicologica e ideologica. Volevano che diventassimo morti, pazzi o distrutti ideologicamente. Hanno sperimentato diversi metodi, ma il loro preferito era l’isolamento totale dal mondo esterno: niente visite, niente letture, niente radio. La nostra risposta è stata chiara: non potevamo accettare questa opzione per evitare di impazzire. Abbiamo riattivato un sistema di comunicazione e controllo fra noi prigionieri per tenere traccia delle guardie nel padiglione. Quando non erano presenti, osavamo infrangere le regole: parlavamo tra di noi attraverso le finestre, facevamo esercizio fisico e trovavamo modi per scrivere. Abbiamo persino costruito un periscopio con attrezzi rudimentali e ideato un sistema di comunicazione per segnalare quando lo spazio era libero. È stata una lotta quotidiana e incessante. È stata un’esperienza straordinaria di resistenza, durante la quale, per esempio, abbiamo organizzato corsi di sociologia, condiviso storie attraverso film e discusso dei nostri problemi.

Qual è stata la tua reazione e quella dei tuoi compagni di prigionia quando vi siete resi conto che il “programma di pensionamento” [l’obiettivo di distruggerli psicologicamente, Ndr] aveva fallito nel vostro caso?

Ho avuto molta fortuna perché sono stato espulso alla fine del 1978 e sono arrivato in Svizzera. Qui ho iniziato a denunciare e a scrivere rapporti per Amnesty International; la mia attività principale era la denuncia di questo regime. Immagina la vita delle persone scomparse nelle carceri non riconosciute. Eravamo più di 11.000, con più di 1.000 detenuti a Coronda, una prigione, invece, riconosciuta. Mi sono reso conto di essere più forte di quanto pensassi quando sono entrato in prigione. Verso il 1983 e il 1984, con la caduta del regime, ho riunito diversi compagni in Argentina che avevano passato esperienze simili alle mie. Mio fratello è venuto anche in Svizzera, ma non è mai riuscito a recuperare la gioia di vivere; per lui, Coronda è stata una distruzione personale. Tutti noi abbiamo sofferto, ma abbiamo visto che il nostro impegno politico e le denunce che abbiamo fatto sono state la prova che questo regime non aveva vinto.

Oggi sei un sindacalista e giornalista in Svizzera. Come hai utilizzato la tua esperienza nella lotta politica e giornalistica?

Cerco di praticare il giornalismo nel modo più oggettivo possibile. L’esperienza che ho vissuto continua a essere molto presente. Sono un sindacalista perché credo che le organizzazioni sindacali possano adottare il concetto di solidarietà internazionale come un principio fondamentale e decisivo per tutti i gruppi umani e associativi. Sono anche convinto che un altro mondo sia possibile, anche se non è facile in un paese ricco come la Svizzera. Questo “altro mondo” implica la lotta contro il cambiamento climatico, l’accoglienza dei migranti e la riduzione delle disuguaglianze salariali. È anche un richiamo ai partiti politici affinché siano al servizio di coloro che non hanno voce.

Quali sono le lezioni che hai imparato da questa esperienza che ritieni siano importanti per le generazioni future?

I valori della resistenza unitaria e della solidarietà sono oggi di grande importanza in Europa. A volte ci sentiamo smarriti, ma credo che il fatto di essere sopravvissuto in una situazione estrema dimostri che con l’unità e la solidarietà, anche il nemico più brutale può essere sconfitto. Sono convinto che la memoria collettiva e la sua ricostruzione siano condizioni indispensabili per imparare dal passato. Perché abbiamo scritto questo libro? Siamo un collettivo dedicato a preservare la memoria, e questo impegno è un contributo significativo per evitare che la brutalità venga dimenticata. Siamo profondamente toccati quando presentiamo il libro e interagiamo con persone più giovani; in queste occasioni, per circa due ore, si sviluppa una connessione empatica molto importante.

Nel contesto attuale, come vedi il ruolo del giornalismo nel dare voce a storie di resistenza e lotta politica?

Negli anni ’70 e ’80, in America Latina, il Nuovo Ordine Internazionale dell’Informazione promosso dall’UNESCO aveva come concetto centrale la giustizia, considerando l’informazione come un bene pubblico e non come un lusso per la minoranza. Questi concetti sono di estrema attualità anche nella realtà Svizzera, dove la concentrazione dei media rappresenta una minaccia alla diversificazione. Questo è un tema sociale e un problema etico profondo. Quando le fonti informative diminuiscono in una regione, diventa motivo di preoccupazione. Il giornalismo dovrebbe essere oggettivo e dare voce a tutti gli attori. Per me, l’informazione non è solo una questione editoriale, ma piuttosto la ricerca di angoli informativi che non sono accessibili a tutti.

Marco Travaglia
Caporedattore e membro della Direzione

1 COMMENTO

  1. Ho appena letto il libro di Dacia Maraini: Vita mia, memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia in Giappone 1943. I genitori erano antifascisti come Sergio Ferrari.
    Facevo parte di A.I. ai tempi della dittatura fascista in Argentina e so quanta crudeltà aveva quel regime.