Sabato 27 luglio 2024, a partire dalle ore 20:30, al Crott, Scarìza Eventi organizza un concerto con la band “I LUF”. Il gruppo, nato da un’idea di Dario Canossi, un musicista originario delle montagne della Valcamonica, offre un repertorio che trae ispirazione dalla vita quotidiana e dalle tradizioni camune. I testi delle loro canzoni riflettono l’amore per il dialetto, la cultura e le tradizioni popolari, oltre all’impegno sociale. In oltre vent’anni di carriera, hanno pubblicato 23 album e tenuto più di 1000 concerti. Abbiamo intervistato il leader della band, Dario Canossi.

Buongiorno Dario, la Val Camonica ha un ruolo centrale nelle vostre canzoni. In che modo la vita e le tradizioni di questa terra influenzano la tua musica?
Io sono nato in Val Camonica e, come dice un nostro brano, So nashit ‘n val camonega, per dirtelo in camuno. Il cantare in camuno e il suonare in qualche modo in maniera tradizionale è per me fondamentale perché è un ritorno da un lato alla mia terra e dall’altro la valorizzazione di quella che è la nostra cultura e la nostra lingua ovvero la musica. Assieme a questo, ovviamente, le tradizioni.
La Val Camonica è una valle meravigliosa, una valle ricchissima, è una valle che se non fosse in Val Camonica potrebbe vivere sicuramente di turismo ma i camuni non sono mai stati in grado di valorizzarla. Io vorrei nel mio piccolo cercare di valorizzarla anche in giro per il mondo…
L’uso del dialetto nelle vostre canzoni è molto forte. Perché è importante per te mantenere viva questa tradizione linguistica?
Il dialetto sta morendo e questo è un dato di fatto, in particolare nelle nostre zone in Val Camonica. Io racconto sempre che quando andavo a scuola le maestre, se parlavo in dialetto, mi davano la multa: erano le famose cinque lire che dovevi mettere nel salvadanaio perché avevi parlato in dialetto. C’era una proibizione verso la lingua dialettale.
Questo assieme al fatto che, da tutti, la lingua dialettale era considerata una lingua minore, era considerato un modo per essere persone di secondo livello. Tutto ciò portato al fatto che questa lingua sta scomparendo. I genitori parlano in italiano ai figli, i nonni parlano in italiano ai nipoti e la lingua muore. Per me è importante scrivere in dialetto perché, come dico sempre, io morirò, spero tra tantissimo tempo ovviamente [dice sorridendo, Ndr], ma le mie canzoni rimarranno e quindi saranno delle piccole testimonianze di lingua camuna.
Quali aspetti della cultura delle tradizioni popolari comune cerchi di trasmettere attraverso la tua musica? Ci sono punti in comune con la Valposchiavo?
Allora, gli aspetti della cultura delle tradizioni popolari che cerco di trasmettere sono quelli che ho ricevuto vivendo lì. Quindi sono le cose più semplici: la semplicità, il valorizzare la terra e i prodotti della terra, valorizzare il bosco, i prodotti del bosco, dalla legna ai funghi. Ultimamente, la mia passione sono diventati i tartufi, che da noi ci sono. Valorizzare le tradizioni vuol dire valorizzare tutto quello che i nostri vecchi ci hanno lasciato e che noi stiamo assolutamente perdendo. Attraverso la musica c’è un brano, per esempio, che si intitola Flel, dove io racconto la battitura del frumento. Brano che ho scritto a quattro mani con mio zio, che allora aveva una novantina d’anni, che mi spiegava cosa voleva dire battere col flel il grano. Era una operazione quasi musicale. Se non andavi a tempo ti fermavano, ti obbligavano a ripartire a battere il grano per dividere il grano dalla fula. Per cui io cerco di trasmettere queste piccole cose.
Ci sono sicuramente dei punti in comune con la Valposchiavo perché anche nella vostra meravigliosa valle le tradizioni sono valorizzate. Direi che da voi sono molto più valorizzate: avete una capacità ben superiore di tenere vive quelle che sono le tradizioni che da noi sono state, per tanto, troppo tempo, una vergogna; dopo è stata solo una battaglia politica e quindi si è perso tanto tempo prima e ancora di più dopo.
Nei vostri testi si riscontra un forte impegno sociale. Puoi parlarci di alcune delle tematiche più importanti che avete affrontato nelle vostre canzoni?
Io dico sempre che i nostri concerti arrivano alle gambe passando dal cuore, ma poi devono toccare anche la testa. Quindi, si può ballare volendosi bene, emozionandosi, ma pensando. Perché, purtroppo, se stacchi la parte alta diventa un grosso problema e anche la valorizzazione del repertorio culturale diventa semplicemente una macchietta. Nei nostri testi cerchiamo di raccontare quella che è la vita e quelle che sono alcune delle grosse problematiche che ogni giorno noi vediamo, che vanno dalla giustizia sociale al discorso dei migranti (abbiamo fatto un disco intero sui migranti) passando dalla valorizzazione, il rispetto e la difesa di quella che è la nostra Natura, in particolare della montagna. Tornando al monte, l’ultimo nostro disco è un atto d’amore verso la montagna e verso il rispetto della montagna contro uno sfruttamento insensato che è stato fatto in questi anni delle nostre montagne.
Ecco, i nostri concerti, però, non vogliono assolutamente essere dei comizi: sono delle feste in cui poi alla fine la gente porterà a casa delle gambe stanche, un cuore pieno, una testa con due o tre cose importanti da non dimenticare.
Hai collaborato per anni con Davide Van de Sfross. Come ha influenzato la tua carriera e il tuo modo di fare musica questa collaborazione?
Ho collaborato col Davide all’inizio della sua carriera solistica, quindi alla fine degli anni Novanta. È stato molto bello, è stato un momento importante per me. Penso che il Davide sia sicuramente stato per la canzone popolare lombarda una grandissima fucina; che sia stato colui che ha dato la visibilità maggiore a questo tipo di musica e quindi per tutti noi che facciamo questa musica è stato davvero importante dal punto di vista della scrittura musicale. La collaborazione con Davide è stata una collaborazione direi proficua, sicuramente per me, è stato bello lavorare con lui. Ogni tanto si collabora ancora assieme e ogni volta che succede è sempre comunque un piacere immenso perché è una persona che ritengo sicuramente geniale, uno dei pochi geni. Quando mi chiesero di dargli una mano, non lo conoscevo ancora. Ascoltai il famoso primo disco e me ne innamorai. All’epoca dissi: “Questo è un genio e farà un sacco di strada” e così è stato. Continuo a reputarlo un gran genio dal punto di vista musicale, ma più ancora dal punto di vista poetico e penso mi abbia insegnato tanto e abbia ancora tanto da insegnare.

In oltre vent’anni di carriera avete pubblicato 23 dischi e suonato in più di 1000 concerti. Qual è stato il momento più significativo per te e per la band?
Ma, i momenti sono stati veramente tanti, tantissimi: mille concerti è davvero difficile ricordarli tutti, li ricordo tutti con affetto. Ovviamente l’esperienza di San Siro rimane l’esperienza di San Siro col Davide [Van De Sfroos, Ndr], quando gli abbiamo riarrangiato una dozzina di brani; abbiamo suonato con lui, ma la sera dopo eravamo in mezzo a un bosco davanti a qualche centinaio di persone, per capire poi veramente chi eravamo. Per noi ogni concerto è una grande festa, è una grande esperienza. Siamo stati contenti di suonare al Festival dell’Aspide nel sud Italia, di suonare a Salerno, abbiam fatto una serie di concerti in Francia in cui ci siamo divertiti veramente tanto tanto. Un po’ sono vecchio, faccio fatica a ricordare e quindi non ti saprei dire qual è quello che in questo momento è stato il più significativo.
Sicuramente tutti questi hanno fatto sì che siamo quello che adesso noi siamo.
I vostri concerti sono noti per essere delle vere e proprie feste. Cosa rende un vostro concerto speciale e unico?
Beh, chiederlo a noi, non ti saprei cosa dire [dice sorridendo, Ndr]. Ti risponderei con una frase che mi ha fatto ridere quando ce l’hanno detta, e cioè che dovremmo fare una convenzione con l’ASL [l’Azienda Sanitaria Lombarda, Ndr] perché i nostri concerti sono terapeutici.
La gente arriva magari carica di problemi e per due ore si diverte, balla, senza smettere di pensare, senza staccare la spina e alla fine sono un po’ più leggeri, un po’ più asciutti, sia perché perdono qualche chilo magari… però, al di là degli scherzi, sono contenti. Credo che la cosa che rende un po’ unico e speciale il nostro concerto è il fatto che ci divertiamo davvero tanto a suonare. Io dico sempre che noi siamo dei dopolavoristi di lusso: pochi di noi fanno musica per mestiere e tutti noi facciamo musica per passione. Quindi, questo rende forse speciale e unico il nostro concerto perché ogni sera noi siamo lì prima di tutto per divertirci.
Io ripeto tutte le volte che, se chi è davanti al palco si toglie da lì sotto, noi sicuramente sul palco non ci stiamo più. Ok? Quindi noi siamo assolutamente legati al nostro pubblico: senza di loro noi sul palco non saliamo. Ed è questa festa, questo continuo dare e ricevere dal pubblico, che rende un pochino i nostri concerti una festa.
Cosa possono aspettarsi i fan dal concerto del 27 luglio? Ci sono sorprese o novità che ci puoi anticipare?
Come dicevo prima, siccome si tratta di un dare e avere, dipenderà da chi avremo sotto il palco, come sempre. Beh, una sorpresa di sicuro ci sarà. Sarà il concerto del LUF di quest’anno col maggior numero di musicisti sul palco. E poi è ovvio che, se volete scoprire le altre novità, non dovete far altro che mettervi sotto il palco e vivere la vita ballando con noi!