Il maiale nero delle Alpi è una razza suina storicamente presente nelle valli alpine, testimoniata sia nell’arte sacra che negli studi zoologici. Questo animale, adatto alla vita in montagna per la sua robustezza e resistenza, era fondamentale per le comunità locali sia dal punto di vista alimentare che economico. Dopo un periodo di quasi estinzione, negli anni recenti si è avviato un progetto di recupero della razza grazie alla collaborazione tra esperti e istituzioni. L’allevamento di questi suini potrebbe rappresentare un’opportunità anche per la Valposchiavo, contribuendo alla sostenibilità ambientale e alla valorizzazione dei prodotti locali.
Rosa porcellino si dice, mai sentito nero porcellino. E tuttavia il “nero” era dappertutto nelle nostre valli, insieme alla variante pezzata, piuttosto che il rosa.
Il maiale nero delle Alpi nell’Arte
Chi lo dice che era dappertutto nelle nostre valli? L’Arte, religiosa e non. Nella maggior parte delle chiese dedicate ad Antonio abate, troviamo il santo con ai piedi un maialino nero o rosso scuro con cinta. Il maiale è per definizione sporco, ma anche salvifico (non si butta via niente). Qualcuno lo ha visto come simbolo salutare (il suo grasso può essere medicamentoso), altri come simbolo demoniaco, sostituito talvolta, in accompagnamento all’abate egiziano, da un esotico leoncino. E infatti un leoncino compare in un quadro del santo nella chiesa a lui dedicata a Poschiavo. Del resto, si sa, i poschiavini giramondo sapevano bene cosa fossero i nobili leoni e quindi non potevano accontentarsi di un semplice maiale.
In Valtellina sono numerose le testimonianze dell’abbinamento santo-maiale: per esempio in Valdisotto nelle chiese di san Bartolomeo e di santa Maria Assunta.

Valdisotto, Sant’Antonio Morignone: chiesa di s. Bartolomeo, affresco del 1587

Valdisotto, Cepina: chiesa parrocchiale, ancona lignea con particolare della statua di sant’Antonio, 1520 circa
Non mancano però i maiali nostrani in alcuni edifici civili: a Piuro, Palazzo Vertemate, e ad Albosaggia.

Piuro, Palazzo Vertemate: maiali neri delle Alpi, prima del 1618 (cc. D.Flammer, da PatriMont).

Stalla fienile in Albosaggia.

Il maiale nero delle Alpi degli studiosi di zoologia.
L’Arte certifica la presenza del maiale nero (e di quello pezzato), ma anche gli studiosi come Felix Anderegg, docente alla curiense Scuola cantonale di Agraria (vedi “Schweizer Alpwirtschaft“, Bern 1899), preceduto dal pastore riformato e insegnante Johann Rudolf Steinmüller (Glarona), 1827.

Aree di presenza storica del maiale nero delle Alpi.

Eccone alcuni esemplari

Qui con Marco Paganoni (vedi oltre)
Il maiale nero: tipico abitante della Montagna
«La montagna richiede una tipologia particolare di suino. Vuole un animale robusto, adatto al pascolo d’alta quota, con arti più lunghi e potenti, con muso prolungato e con orecchie pendenti a protezione degli occhi tra la bassa vegetazione, con un tronco più corto e agile, con una cute più spessa e una pigmentazione scura in grado di resistere sia alle improvvise escursioni climatiche sia alla luce alpina così ricca di raggi ultravioletti. I suini neri della Valtellina, il suo equivalente svizzero nero o pezzato dei Grigioni, il maiale pezzato dall’Alto Adige rappresentano solo alcuni dei fenotipi autoctoni dell’arco pre-alpino/alpino centro-orientale, che nei secoli hanno saputo adattare le proprie caratteristiche ad un ecosistema così specifico, dove l’uomo è sempre stato solo una componente
Varie testimonianze e studi antropologici ci dicono che il rügan’t (il maiale, chiamato anticamente così nella vulgata valtellinese perché con il suo grugno rimuove, rimesta – rüga’ – il terreno) era in sostanza un animale domestico. Dormiva disteso nelle stalle affianco al vitello, nel piano terra delle abitazioni ma soprattutto, camminava. Seguendo le stagioni, accompagnava uomo, mucche e capre nel pascolo quotidiano. Si spingeva, grufolando, fino in quota, trascorrendo almeno tre mesi in alta montagna, arricchendo il sapore della propria carne con i sentori delle piante selvatiche e delle erbe aromatiche (achillea millefoglie, timo, fienarola alpina) di cui si cibava.
In un interessante studio pubblicato nel 1982, Uomini delle Alpi – Contadini e pastori in Valtellina di A. Benetti, D. Benetti, A. Dell’Oca, D. Zoia, viene riportato: “Allevare il maiale costituiva
un formidabile mezzo per tesaurizzare gli scarsi residui organici della vita del desco familiare (sottoprodotti della lavorazione del latte, scarti alimentari e così via) ricavandone quel po’ di carne, ma soprattutto di grassi, indispensabili per l’inverno… Tra l’altro era abbastanza diffuso il pascolo di tali animali, che riduceva ulteriormente i costi, sia nei periodi consentiti che di frodo…In sintesi, la disciplina tipica può essere individuata nella seguente: Inverno: gli animali erano stabulati a fondovalle e potevano pascolare (se le condizioni di innevamento lo rendevano possibile) nei prati di fondovalle e nei castagneti. Primavera: il bestiame era portato sui maggenghi e fatto pascolare nelle zone boschive annesse. Estate: si alpeggiava, in ogni caso. Autunno: le bestie erano riportate sui maggenghi e poi a fondovalle.” », (Da PatriMont e da ONAS, assaggiatori professionali di salumi).
Una razza si estingue prima che sia morto l’ultimo esemplare
Il nuovo inizio
Fine maggio 2013 il dottor Alessio Zanon della Facoltà di Veterinaria dell’Università di Parma ed esperto di maiali di RARE, organizzazione per il mantenimento di animali domestici in estinzione, individuò un ultimo gruppo di piccoli maiali neri, valtellinesi di origine, sopravvissuti in una fattoria didattica nel Comasco. Il docente chiese di prendere provvedimenti tempestivi per la loro conservazione. Qui intervenne Hans-Peter Grünenfelder (diploma al ETH) che nel 1982 aveva promosso la fondazione svizzera ProSpecieRara. Si coinvolse a Sondrio il servizio veterinario provinciale nella persona della dottoressa Silvana Cerasa.
I maiali rientrarono in Valle: si trattava di un numero talmente esiguo di capi (solo cinque) da rendere impossibile qualunque tentativo di recupero della specifica genetica d’origine e gli evidenti problemi di consanguineità avrebbero portato nel lungo termine alla definitiva estinzione della razza.
Si iniziò a largo raggio il censimento degli animali residui reperibili in prossimità. E altre due linee genetiche vennero individuate: un verro nero a Samolaco e vari esemplari pezzati in Val d’Ultimo/Ultental.
Nel 2018 vennero introdotti in Svizzera da Grünenfelder, che dal 2013 è presidente della rete alpina Pro Patrimonio Montano (abbreviato PatriMont) e PatriMont è diventato il veicolo di estensione degli allevamenti in Svizzera, Italia e Austria.
L’ultimo dato disponibile (inizio 2020) certifica la presenza di una sessantina di gruppi riproduttori (per un totale di quasi 250 capi), basati su quattro linee di verri e otto linee di scrofe e distribuiti in Italia (principalmente in Valtellina, Trentino e Alto Adige), Austria (11), Svizzera (12) e Baviera (3).

Il “nero” in Valtellina e nei Grigioni
Tre sul versante retico (tra Morbegno, Dazio e Valmasino) ed uno a Samolaco in Valchiavenna sono i punti dove vengono oggi allevati i suini e venduti prodotti di trasformazione della carne del nero alpino, a volte con l’aggiunta negli insaccati di carne di pecora Ciuta (altro animale tradizionale, inizialmente quasi estinto, ma oggi in via di recupero). Sempre a Morbegno-Campovico il negozio RetroBottega propone in quantità limitata da novembre un lonzino di loro preparazione che l’anno scorso è stato proposto ad un prezzo di circa 50 euro al chilo. E nel sito di PatriMont possiamo trovare altri buoni indirizzi nei Grigioni a Campsut-Cröt, Sufers, Urmein, Thalkirch e Wergenstein. E poi in Austria e nel Trentino-Alto Adige.
A colloquio con Marco Paganoni nel C.d.A. di PatriMont
Nel Consiglio di Amministrazione di PatriMont (rete centrale con sede a San Gallo) troviamo Marco Paganoni, quarantaquatrenne vigile del fuoco di Albosaggia e allevatore di una trentina di capi di pecora Ciuta. Lui è anche presidente della rete Lombardia di PatriMont, nonché referente dei gruppi di allevamento regionali del “nero” e della pecora Ciuta.
«Marco, ritiene possibile l’ipotesi di allevamento del suino nero in Valposchiavo?».
«Perché no! Mi sembrerebbe che possano esserci le condizioni. Si potrebbe per esempio recintare un’area nei castagneti del Brusiese. I maiali mangiano volentieri le piccole castagne rimaste sul terreno. Questo pascolo non potrebbe essere stanziale, ma uno di altri itineranti. Nel Senese e nei Nebrodi si usa anche nella rotazione in campicultura. In ogni caso l’investimento economico necessario sarebbe importante, sempre però inferiore a quello “industriale”. E senza considerare i benefici per l’ambiente e per il benessere animale.».
«Problemi con l’altitudine?».
«Direi di noi: sperimentalmente da noi sono stati portati in alpeggio a Santa Caterina Valfurva dove si arriva ai 1770 metri come del resto a Thalkirch (Parco del Beverin). Sono animali resistenti di folto pelo, zampe lunghe e stomaco buono».
«A proposito ho letto che si cibano anche di felci e rovi…».
«Certo. Anna Jenni dell’Istituto di ricerca sull’agricoltura biologica (Argovia) ha recentemente dimostrato che i maiali neri delle Alpi mangiano volentieri la felce, anche se in realtà è velenoso. Però il veleno non viene immagazzinato nell’organismo e i prodotti del maiale sono innocui. Un vantaggio davvero sorprendente di questa razza suina adatta alla montagna. E poi questi mammiferi gradatamente liberano totalmente o parzialmente i terreni montani da altre piante infestanti come i rovi, da lei citato, e aggiungo io dal romice alpino (in dialetto “lavaza”) che è difficilissimo da eradicare in particolare nei pascoli ben concimati».
«I prodotti. Si arriva da noi al prosciutto?
«Ancora è troppo presto. Si deve estendere l’allevamento e affinare le conoscenze. Da noi si produce soprattutto salamini e salami, lonzine, pancetta e lardo».
«I prezzi sono remunerativi?».
«I prezzi possono essere decisamente interessanti, senza arrivare (per il momento!) ai livelli del culatello di Cinta senese o di Nero dei Nebrodi o del Pata negra iberico».
«Però potrebbe godere della certificazione Bio e del fascino di prodotto locale eco sostenibile…».
«Certo. C’è anche da aggiungere che le indicazioni di PatriMont che sorveglia questo comparto sono piuttosto cogenti per esempio sul benessere animale e sull’alimentazione: per capirci niente granturco, soia e così via».