“La parola alle cose”: in Casa Besta la prima presentazione del libro

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Da sx Laura di Corcia, Simone Pellicioli e Begoña Feijoo Fariña

Poesia, storia e umanità fra gli oggetti dei musei etnografici valposchiavini

Le cose parlano, se siamo disposti ad ascoltarle. Ossia: se siamo nella disposizione di non fermarci a coglierne il mero utilizzo strumentale ma di collocarle in una storia che le ha viste concepire, utilizzare e vivere: da chi le ha costruite a chi poi le ha usate. Questa è la suggestione – e non l’unica – che guida il libro La parola alle cose, scritto da Begoña Feijoo Fariña e Laura Di Corcia, e che domenica 5 gennaio è stato al centro della sua prima presentazione pubblica a Casa Besta, Brusio. In un’epoca in cui l’essenziale spesso si nasconde sotto il velo della frenesia quotidiana, le due autrici insieme alla prospettiva della fotografa Maria Svitlychna – le cui fotografie sono presenti nel volume pubblicato –, ci invitano a porre l’attenzione sul contorno vissuto degli oggetti conservati nei musei etnografici della Valposchiavo e dai quali hanno tratto ispirazione: perché non solo la materia venga conservata ma anche la vita che l’ha attorniata per decenni. L’incontro è stato moderato da Simone Pellicioli, in una sala gremita di pubblico.

La parola

La domanda spontanea quando si assiste alla presentazione di un libro è: di che cosa parla questo libro? Ebbene, non sempre è facile rispondervi. Soprattutto quando i temi sono tanti e complessi, la risposta non può essere banale e, talvolta, conviene partire facendo un passo indietro.

Esistono spazi in cui attraverso diverse forme di memoria vengono conservati ricordi, esperienze, eventi, oppure pensieri, scoperte, oggetti. Le due autrici, nei ringraziamenti introduttivi scrivono: «nei musei etnografici sono conservati oggetti e documenti depositari della memoria collettiva». Un altro modo di conservare e custodire però è attraverso il linguaggio e la parola stessa. Martin Heidegger in Was heißt Denken spiega che nominare una cosa è «chiamarla entro la parola» in modo tale che in essa rimanga custodita, raccomandata, significata: nominare una cosa è chiamarla in una presenza. Il nominare del linguaggio poetico, in particolare, è un modo per sottrarre le cose all’assenza, per portarle alla mente e riportarle alla memoria, presenti a chi, in qualche modo, se le raffigura. La parola alle cose mira quindi a ‘dare parola’ non solo alle cose in sé, ma alla vita che le ha circondate un tempo, alle vicende che hanno abitato gli ambienti e i luoghi che sono di queste testimoni.

Le cose

Il testo pubblicato da Armando Dadò, si divide in tre parti dedicate a tre luoghi: il complesso Aino e al centro di conservazione, Casa Besta, Casa Tomé. I brani sono brevi quanto intensi, le fotografie restituiscono luce agli oggetti, come le parole delle vicende narrate in versi e in prosa ne restituiscono il senso. Il volume è presentato da una prefazione di Vincenzo Todisco e una postfazione di Giovanni Ruatti. I temi sono trasversali e la ragione di ciò si dà per via delle storie squisitamente umane di cui si tratta: Begoña Feijoo Fariña ha spiegato «io non ho scelto tematiche. Laddove c’è una storia che un oggetto mi racconta, porto sempre l’attenzione sull’umano. E le tematiche nella vita dell’umano sono tutte lì… l’amore, la famiglia, la povertà o la non povertà, quali sono gli ostacoli e come vengono affrontati. Quando racconto una storia le tematiche vengono da sé, per quanto riguarda gli affetti, i conflitti, i dolori. Mentre tematiche come possono essere contrabbando ed emigrazione, queste invece possono essere legate all’oggetto in sé e al periodo storico in cui si inserisce l’oggetto».

Simone Pellicioli ha domandato alle due autrici se sono state colpite da un oggetto in particolare che è diventato così il loro preferito. Per Laura Di Corcia, più che un oggetto si è trattato di un intero ambiente: Casa Tomé. «La povertà e le cose essenziali ci riportano a una nudità essenziale che è la nostra: nasciamo nudi e torniamo nudi. Casa Tomé va in direzione contraria rispetto alla quantità di oggetti di cui siamo circondati ora, che ci allontanano dalla verità delle cose».

Per Begoña Feijoo Fariña l’oggetto preferito è quello che le ha raccontato più storie, il vecchio scarpone conservato in Casa Besta, su cui ha scritto il brano Scarpulin. Per Maria Svitlychna, invece, l’oggetto preferito è una gonna, la quale a sua volta ha ispirato Begoña Feijoo Fariña nella poesia Lacerazioni, forse la più intensa di tutto il volume.

Il femminile al centro

Questo tema che è stato, sembrerebbe, imposto per decisione iniziale da Begoña Feijoo Fariña, non va inteso come tradimento o come una visione parziale – come è sempre la nostra visione. Si tratta di una resa autentica delle dinamiche storiche, di quando le donne da sole erano costrette ad affrontare molte problematiche in Valle, «quando magari gli uomini erano dovuti emigrare per cercare lavoro» spiega l’autrice. Il suo contributo prezioso offre una prospettiva più ricca dalla parte di chi governava il focolare ma poteva di meno, poteva… Non certo per mancanza di capacità; ma per arbitrarie limitazioni sociali.

Begoña, come è avvenuto l’incontro con il tuo sé, che partendo dall’interpretazione delle sensazioni evocate da certi oggetti ti ha permesso di generare storie e poesie? Che cosa hai provato in questo confronto intimo?

Orgoglio: orgoglio di conoscere direttamente una realtà simile a quella di cui si è trattato e che per altri è solo storia. E fierezza: per essermi emancipata da quella condizione.

Di immaginazione in immaginazione

C’è uno scritto, un racconto breve di Kafka, Il cruccio del padre di famiglia, in cui viene presentato un oggetto, che però è anche un essere: Odradek. Questo oggetto-essere, esce autonomamente dalla soffitta, si muove in questa casa di questo padre di famiglia emettendo un fruscio sordo, assomiglia a un rocchetto di filo ma a forma di stella. A volte visita altre case ma poi torna. La parola alle cose tratta di oggetti artigianali e ambienti antichi, che esistono tutt’ora, che avevano una loro funzione. Odradek non ha alcuna funzione, è de-funzionale. Potrebbe essere inutile e al contempo vergine, perfetto, tanto integro che la sua funzione risulta inconcepibile. Oppure un oggetto esausto dallo sfruttamento, scarto di ciò che resta (forse anche di noi, quando alienati). Magari invece potrebbe essere un’oggettivizzazione della memoria perduta e occultata che ritorna in questo modo in superficie. In ogni caso resta il cruccio: «inutilmente mi chiedo cosa ne sarà di lui. Chissà se può morire? […] C’è da aspettarsi di ritrovarselo un giorno tra i piedi dei miei figli e dei figli dei miei figli, che si trascina dietro i suoi fili e ruzzola giù per le scale? È vero, in apparenza non nuoce a nessuno; ma l’idea che possa anche soltanto sopravvivermi, mi fa quasi stare male».