Il gallo sul campanile

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Luca 22,54-62
Sermone del 16 febbraio 2025

In cima ai campanili di molte chiese protestanti non c’è una croce, bensì un gallo. Non si tratta di una stranezza, ma di un preciso richiamo al celebre racconto che vede Pietro protagonista.

Dopo averlo [Gesù] arrestato, lo portarono via e lo condussero nella casa del sommo sacerdote, e Pietro seguiva da lontano.

Essi accesero un fuoco in mezzo al cortile, sedendovi intorno. Pietro si sedette in mezzo a loro. Una serva, vedendolo seduto presso il fuoco, lo guardò fisso e disse: «Anche costui era con lui». Ma egli negò, dicendo: «Donna, non lo conosco». E poco dopo, un altro lo vide e disse: «Anche tu sei di quelli». Ma Pietro rispose: «No, uomo, non lo sono». Trascorsa circa un’ora, un altro insisteva, dicendo: «Certo, anche questi era con lui, poiché è Galileo». Ma Pietro disse: «Uomo, io non so quello che dici». E subito, mentre parlava ancora, un gallo cantò. E il Signore, voltatosi, guardò Pietro; e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detta: «Oggi, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». E, andato fuori, [Pietro] pianse amaramente. (Luca 22,54-62)

C’era stata una drammatica discussione, nel gruppo dei discepoli, dopo che Gesù aveva accennato ai pericoli che si andavano profilando, a un suo possibile arresto. E allora Pietro aveva detto a Gesù: “Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e anche alla morte”.

Lui non avrebbe abbandonato Gesù, aveva affermato il discepolo, non lo avrebbe tradito. E già sognava l’esaltazione del bel gesto pubblico, la gloria di un martirio clamoroso: la sua piccola leggenda, a spese del modesto quotidiano.

Nell’esaltazione, se si fosse imbattuto nelle guardie armate, forse ci sarebbe riuscito. Ma non aveva fatto i conti con una serva: trovatosi fuori dal quadro che si era immaginato, l’euforia abbandonò Pietro. Ebbe solo paura. Perse la sua fermezza sciocca e farfugliò scuse e bugie.

Allora il gallo cantò. In quel momento, Pietro comprese che il suo coraggio era soltanto vanteria. Seguire Gesù era stata una bella promessa, un’esaltante prospettiva di gloria, ma non aveva messo in conto il disprezzo della serva, l’umiliazione delle beffe, la derisione della gente.

Il suo calcolo era stato troppo rapido, la promessa troppo precipitosa, il suo coraggio troppo imperturbabile. Ora Pietro capiva che aver coraggio significa tremare e superare quel timore senza l’aiuto dell’esaltazione.

Oggi guardiamo con sospetto quel tipo di coraggio: un coraggio che è come la buona salute di chi non ha mai avuto un mal di testa e si stupisce dei malanni degli altri.

E insieme a quel coraggio, oggi guardiamo con sospetto anche l’eroe, e l’eroismo senza brividi di chi non ha sufficiente fantasia per presentire il male.

Il coraggio di chi non trema non ci convince. Sappiamo infatti che chi si lancia nella mischia sorretto dall’esaltazione, può anche essere un vile, ubriaco di coraggio a buon mercato. Magari anche ci crede: ha bisogno di crederci per mascherare le piccole viltà di tutti i giorni.

Quel coraggio non ci convince, perché non è autentico. Come non è autentico il coraggio presuntuoso di Pietro: “Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e anche alla morte”.

Oggi noi vogliamo essere liberati da questo tipo di coraggio, da questo falso eroismo, e vogliamo scoprire un coraggio meno visibile, ma più autentico, liberato da ogni viltà.

Quella viltà che ci spinge a fuggire la fatica, a scansare il rischio, a non comprometterci, a non sporcarci le mani, la viltà che ci suggerisce un bilanciato qualunquismo: un colpo al cerchio e uno alla botte, per non scontentare nessuno.

La viltà che ci fa fuggire i tristi pensieri, che ci fa chiudere le pagine nere del giornale per non essere turbati, per non concedere amore, per non soffrire. La viltà che ci rende presuntuosi e strafottenti, insensibili e freddi, per poi però ritirarci quando c’è solo una serva.

Noi oggi vogliamo imparare a vivere con il nostro timore, la nostra complessità, la nostra problematicità; vogliamo liberarci dal coraggio tronfio e dalla paura vile.

Vogliamo liberarci dal voler essere grandi, dal voler dare spettacolo, dal recitare davanti alla platea del mondo e soprattutto di noi stessi: di essere ciò che avremmo voluto essere e che invece non siamo.

Vogliamo liberarci da questo voler fare del teatro che è un rifiutare la nostra povertà, un non saperci amare come siamo; liberarci dall’opaco coraggio che rifiuta il tremore vergognandosi di aver paura. E in questa ricerca lasciarci guidare da quel Gesù che ci fa comprendere che l’eroe è uno che va avanti tremando, che il coraggio è una vittoria sulla paura, che la pace è una pacificazione che si trova al di là dell’angoscia.

Pastore Paolo Tognina