Cosa significa rinunciare?

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Marco 8,31-35
Sermone del 2 marzo 2025

Poi [Gesù] cominciò a insegnare loro che era necessario che il Figlio dell’uomo soffrisse molte cose, fosse respinto dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, fosse ucciso e dopo tre giorni risuscitasse. Diceva queste cose apertamente. Pietro lo prese da parte e cominciò a rimproverarlo. Ma Gesù si voltò e, guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro dicendo: «Vattene via da me, Satana! Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini». Chiamata a sé la folla con i suoi discepoli, disse loro: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per causa mia e del vangelo, la salverà. (Marco 8,31-35)

Molti passi dei Vangeli sono fonte di incoraggiamento, di ispirazione, di consolazione, invitano gli esseri umani a riconciliarsi tra loro e con Dio.

Ma alcuni passi sono difficili, e spingono a interpretazioni infelici.

Tra questi c’è un’esortazione attribuita a Gesù che sembra invitarci a sacrificare la nostra vita.

“Se qualcuno vuole venire dietro a me, disse Gesù, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Marco 8,34).

Rinnegare sé stessi: a prima vista si tratta di un’esortazione scioccante e incomprensibile. Dovremmo davvero rinnegare e rifiutare la vita per salvarla? Gesù non è piuttosto colui che solleva, consola, incoraggia, cura ogni persona? Davvero ci incoraggia a sacrificare la vita presente per guadagnare quella futura? Lui stesso non lo fa, ama la vita in questo mondo. Come interpretare allora queste parole?

Meister Eckhart, filosofo e mistico tedesco vissuto a cavallo tra il 13. e il 14. secolo, si chiedeva:come fare per sentirsi bene e agire bene?

La questione, rispondeva Eckhart, non è possedere o abbandonare le cose, essere qui piuttosto che altrove, né essere soli o circondati dalla gente: la questione è in noi stessi, è la nostra disposizione verso noi stessi. È lì che si trovano i nostri ostacoli.

E conclude dando questo consiglio: “Veglia su te stesso ed abbandona te stesso là dove ti trovi: ciò è più importante di tutto”.

È un consiglio saggio. Prendersi cura di sé stessi e non rinchiudersi in un’immagine: rinunciare all’immagine che ci siamo fatti di noi stessi, all’immagine che altri si sono fatta di noi, a ciò che pensiamo che avremmo dovuto essere. Abbandonare queste immagini è una grande liberazione. Dio ci ama così come siamo, e con questa fiducia in lui possiamo accettarci più facilmente.

“Rinnegare sé stessi” significa allora, secondo Meister Eckhart, rifiutare false immagini di ciò che dovremmo essere.

Il filosofo danese Sören Kierkegaard è stato un grande specialista della disperazione. In un trattato dedicato interamente a questo argomento, dice che disperato è colui che vuole liberarsi di sé stesso.

Kierkegaard afferma che la disperazione è desiderare incessantemente di essere ciò che non siamo, e non accettare di essere ciò che siamo.

Detto in altre parole: se io scelgo di realizzare me stesso fino in fondo, vengo messo a confronto con la mia limitatezza e con l’impossibilità di compiere il mio volere. Se, viceversa, rifiuto me stesso, e cerco di essere altro da me, mi imbatto in un’impossibilità ancora maggiore.

Come possiamo accettare di essere ciò che siamo, anche se non siamo perfetti? La buona notizia di Gesù è questa: noi siamo già stati esaminati da Dio ed egli ci ha giudicati degni di lui. Abbiamo superato il test di idoneità e siamo stati accettati. Questo è sufficiente.

Possiamo prenderci cura di noi stessi, riconoscere il nostro valore, i nostri talenti, i nostri doni e nel medesimo tempo rimanere flessibili, aperti a ciò che la nostra coscienza, illuminata da Dio, ci chiamerà a fare, anche se non era nei nostri piani.

Un’altra possibile interpretazione dell’esortazione di Gesù a “rinnegare sé stessi” ci viene offerta da una riflessione di Martin Lutero a proposito del “peccato”.

Lutero dice che il peccato è essere concentrati sul proprio ombelico al punto da essere piegati, incurvati, ripiegati su noi stessi. L’essere umano peccatore è “incurvato in sé”. La colpa, il peccato, non sono in primo luogo una questione di azioni, ma di atteggiamento.

L’invito di Gesù a “rinnegare sé stessi” non deve perciò essere inteso come un sacrificio di sé, ma come un cambiamento di atteggiamento: quando siamo curvi in noi stessi, Gesù ci chiama a rinunciare ad avere il nostro sguardo fisso sul nostro ombelico.

In altre parole, è un invito a raddrizzarci e a guardare oltre noi stessi, a rialzarci e a scoprire che ci sono altre persone, che c’è un mondo intero intorno a noi. A dare alla nostra vita una direzione completamente diversa.

Lutero prende l’immagine dell’essere umano curvo o piegato da Agostino, il quale rimanda all’appello di Gesù ad amare Dio e il prossimo nostro come noi stessi. Prendendo coscienza del nostro valore e dell’amore di Dio – dice Agostino -, possiamo trovare il coraggio di aprirci, alzare lo sguardo intorno a noi e scoprire la nostra capacità di compassione per le persone.

L’uomo ripiegato su sé stesso non è solo l’egoista o l’orgoglioso, è anche il disperato, l’insicuro, il superficiale, il sonnolento.

Per Agostino, il nostro problema non è tanto quello di essere condizionati da un cattivo spirito che dovremmo sradicare, è piuttosto una mancanza di bene. Saremmo come un bocciolo di fiore ancora chiuso, in attesa di luce e calore per aprirsi. Allo stesso modo aspettiamo un amore, quello di Dio, che ci apra. Questa rinuncia a noi stessi non consiste nel rifiutare il nostro amore per noi stessi, ma nel farlo sbocciare.

Gesù aggiunge poi: “Se qualcuno vuole venire dietro a me… che porti la propria croce e mi segua!” (Marco 8,34)

Questo testo è stato purtroppo usato per giustificare la sofferenza, quella di Gesù e anche la nostra, come una cosa buona. Dio sarebbe una sorta di Moloch la cui giustizia ha fame di sacrifici umani. Ma questo è il contrario del messaggio di Cristo, il quale dice che Dio vuole che le lacrime siano consolate, le ingiustizie riparate, i disperati confortati e sollevati.

Questo appello di Gesù a caricarci della nostra croce e a seguirlo non è un invito a cercare il martirio. Non significa nemmeno accettare la nostra sofferenza, il nostro destino di miseria. Non significa nemmeno meditare sul povero Gesù al punto che il nostro cuore sanguini per le sue sofferenze. Infatti, non è detto che dovremmo portare la sua croce. Non è nemmeno detto che dovremmo lasciarci crocifiggere come lui.

Gli stoici proponevano di diventare indifferenti alla sofferenza. Gesù, invece, si indigna per la sofferenza e la combatte, sia che si tratti della sua sofferenza, sia che si tratti delle pene di coloro che incontra.

Cosa fare? Gesù ci propone di non rassegnarci, di riconoscere la nostra sofferenza, e di affrontarla. È ciò che lui fa nella preghiera a suo padre per la propria sofferenza, e piange perché è inevitabile. Quando può, Gesù evita la sofferenza: per esempio, scappando da una folla che lo circonda minacciandolo di morte. Altre volte riesce a curare e guarire le persone sofferenti che incontra (cosa che non sempre accade).

Il contrappeso alla disperazione non è la rinuncia, non è la rassegnazione né l’abbandono di sé, non è dimenticare la sofferenza, non è lasciarsi andare. È la fiducia in qualcosa di più grande di tutto ciò che ci fa soffrire. Trovare, o ricevere la forza di fare un passo, poi la forza del passo successivo.

“Se qualcuno vuole seguirmi… che mi segua!” (Marco 8,34)

Seguire Gesù significa ispirarsi al suo passo agile e resistente, descritto con queste curiose e difficili immagini “che rinneghi sé stesso e porti la propria croce”. I quattro evangelisti hanno espressioni diverse e complementari per parlare di questo modo di essere: è una vita salvata (dice Marco), è una vita trovata (dice Matteo), è una vita vivificante (ci dice Luca), è una vita così viva che sarà conservata in un’altra forma per l’eternità (ci dice Giovanni).

Pastore Paolo Tognina