Una parabola che parla di noi

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Luca 15, 1-3.11-32
Sermone del 17 luglio 2022

I culti vengono registrati e si possono riascoltare al seguente indirizzo:

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Tutti i pubblicani e i peccatori si avvicinavano a Gesù per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro». Allora egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre.

Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». (Luca 15, 1-3.11-32)

Malgrado la sua apparente semplicità, questa parabola stupisce e affascina a ogni rilettura. Perché? Tra i molti motivi, ne scelgo uno: perché facilmente possiamo riconoscerci nella figura del fratello minore, dato che ci muoviamo anche noi tra la fuga, la conversione e la reintegrazione.

Cominciamo dalla fuga. In modi diversi, come donne e uomini moderni o post-moderni, siamo spesso in fuga. In fuga dai complessi di un’infanzia o di un’adolescenza opprimente. Oppure in fuga da certi ruoli sociali connessi al nostro lavoro, alla nostra condizione nella società.

Lo spirito del tempo, così pronto a livellare tutto, esalta questo nostro stato d’animo. Non si devono più avere, si dice, dei rimorsi, dei principi a cui obbedire; non ci si deve più impegnare, identificare “anima e corpo” in qualcosa, basta con la rigidità, con la perseveranza. Si vive una volta sola e si deve vivere qui e ora, seguendo le emozioni del momento, senza lasciarsi guidare dai ricordi del passato, né tendere lo sguardo verso il futuro avendo un progetto in testa.

Una volta si diceva: stringi i denti, ragazzo, resisti e tira avanti nella tua strada. Oggi si pensa: fai come vuoi, segui i tuoi istinti, vai dove ti porta il cuore.

Una volta l’ideale era la formica laboriosa, che segue il suo percorso, in fila con tutte le sue sorelle. Oggi è la farfalla, che svolazza da un fiore all’altro. E sfarfallando speriamo di riscoprire il senso della vita, di realizzare noi stessi.

Ecco perché ci affascina questa parabola: siamo in fuga, proprio come il “figliol prodigo” della parabola, a cui non bastava più il piccolo mondo della campagna. Come lui, anche noi abbiamo un desiderio irrefrenabile di affrancamento dalla tradizione, dai valori del passato.

Secondo motivo, quello della conversione. Il giovane della parabola ha fatto le sue esperienze. Avrà provato senza dubbio delle grandi emozioni, ma il nostro testo ci racconta che ha avuto parecchie peripezie. Nel momento più grave della sua crisi esistenziale, si mette a riflettere razionalmente sulla sua situazione e, come ci dice con grande sobrietà il testo, “rientrò in sé”.

È importante questa precisazione. Cioè c’è stato in lui un cambiamento di comportamento, una conversione – amara, ma necessaria. E questo aspetto della parabola ci affascina, come credenti, ma anche semplicemente come esseri umani.

Il “rientrare in sé” del giovane della parabola ci raffigura una realtà basilare e che non dobbiamo dimenticare: è possibile rientrare nei nostri limiti, rinunciare all’avventura dell’autosufficienza, dell’autonomia, dello sfarfallare, e ritrovare il concetto giusto di noi stessi, o come si dice, rimettersi in carreggiata.

Noi siamo delle creature ribelli che spesso sbagliano, ma che tuttavia possono correggere consapevolmente il proprio comportamento. Possiamo verificare certe condizioni di vita e capire razionalmente che non potremmo sopravvivere senza mutare, che non avremmo un futuro senza cambiare rotta. Per esempio, oggi cominciamo a capire – sia pure molto lentamente, forse troppo lentamente – che non possiamo vivere continuando a inquinare all’infinito il nostro pianeta, perché questo ci porterebbe inevitabilmente alla catastrofe. È necessario un cambiamento. Anzi, la conversione è l’unica via possibile.

Un altro esempio, purtroppo più lontano dalla sua attuazione: stiamo lentamente capendo che un modello di società improntato a un militarismo sfrenato porta inevitabilmente alla catastrofe e che quindi è necessaria una conversione che miri a un’umanità pacificata, in cui la scienza sia posta esclusivamente al servizio del bene comune e non a quello della lotta micidiale di tutti contro tutti.

Certo, “rientrare in sé”, diventare ragionevoli, è stato sognato mille volte, e non c’è nessuno che non lo sogni in qualche momento di amarezza, di trauma, o di ispirazione. Ma ci sono fortissime ragioni per dubitare che sappiamo farlo senza un confronto esterno, senza misurarci con un modello, un ideale, un termine di paragone.

Il giovane del nostro racconto rientra in sé dopo avere messo a confronto la propria situazione con quella dei servitori di suo padre. Il figlio ha capito di avere sbagliato, ma solo dopo avere ripensato cosa era la sua condizione nell’azienda famigliare. Il confronto gli fa capire che la cosa più ovvia, è di fare ritorno a casa e chiedere a suo padre di essere reintegrato. Certo, egli non ha più alcun diritto da far valere e può solo sperare nella benevolenza di suo padre.

E proprio questo è il terzo, affascinante elemento della parabola: il comportamento del padre.

Terzo, la reintegrazione. Gli eventi prendono una piega sorprendente. Il figlio rientrato in sé viene accolto senza riserve, senza condizioni, senza che gli venga richiesta una confessione di colpevolezza per la sua fuga: viene accolto a braccia aperte prima ancora che possa dire qualcosa a sua discolpa. E gli viene preparata una festa. In tal modo il padre annulla il passato del figlio, gli ridà il suo posto.

E qui sta l’evangelo, la buona notizia contenuta in questa parabola, per noi donne e uomini disillusi dell’inizio del 21. secolo: il padre della parabola rimanda a Dio. Più precisamente, l’amore che si manifesta in questa parabola è l’amore che Dio ha per le sue creature. Sarebbe segno di poca fede in Dio, nel suo amore, pensare che egli possa abbandonarci, con i  nostri errori, i nostri recalcitranti comportamenti, le nostre ribellioni, le nostre fughe.

La parabola del figliol prodigo ci ricorda proprio questo: che Dio esiste, e ci ama, e rimane fedele a questa sua decisione; che Dio ci ama e ci vuole per sé, qualunque cosa noi pensiamo di lui; che l’amore di Dio è più forte di tutti i nostri dubbi, di tutte le nostre freddezze, di tutte le nostre cadute. L’amore di Dio perdona il nostro passato e ci invita a vivere in comunione con lui.

La parabola si conclude con la descrizione dei sentimenti del fratello “normale” che se la prende con il padre a causa del suo atteggiamento che considera incomprensibile.

Nel suo senso di giustizia, avrebbe preferito che avesse dato una bella lavata di capo al “figliol prodigo”. E forse così pensiamo anche noi, perché un pezzo del fratello normale si ritrova anche in noi. Anche per questo abbiamo bisogno di questa parabola – come i primi uditori, farisei e scribi -, per ricordarci che l’amore di Dio vuole riunire i “normali” e i “perduti” perdonati nel suo amore.

Pastore Paolo Tognina