Genesi 6,9-22
Sermone del 2 ottobre 2022
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Il racconto della costruzione dell’arca, da parte di Noè, ci parla di speranza. E ci parla anche della particolare situazione in cui noi oggi viviamo.
Il racconto della costruzione dell’arca, da parte di Noè, ci fa vedere, in primo luogo, che la speranza è attesa. Noè attende che si verifichi quel che Dio ha annunciato. Dio ha detto che comincerà a piovere, che pioverà per molto tempo, che pioverà tanta acqua dal cielo da coprire tutta la terra. Occorre perciò costruire una nave. L’attesa di Noè si concretizza e si concentra nella costruzione di una nave. E l’intera costruzione si giustifica unicamente in base all’attesa.
I suoi contemporanei lo prendono in giro. Perché non c’è una nuvola in cielo. E sulla terra ci sono molte cose più importanti da fare che costruire una nave in mezzo alla campagna, in una zona lontana da fiumi, laghi e mari. Per i suoi contemporanei, Noè è un perditempo, un anormale, un pazzo. C’è da coltivare i campi, c’è da occuparsi della politica del villaggio, bisogna impegnarsi nella gestione municipale, bisogna seguire gli affari, l’andamento dei titoli in borsa, il corso del dollaro e dell’oro, l’aumento dei tassi della cassa malati, ogni giornata è piena di attività da svolgere. Per i contemporanei di Noè, quest’uomo si occupa di una cosa assurda, inutile, ridicola.
L’atteggiamento di Noè si spiega solo con l’importanza che egli attribuisce alla parola di Dio, e alla sua convinzione che niente conta al di fuori della possibile realizzazione di questo annuncio. Per Noè l’unico orientamento sicuro viene dalla speranza che determina la sua azione.
Il pastore evangelico tedesco Dietrich Bonhoeffer, commentando questo passo del libro della Genesi, si è soffermato su un particolare della costruzione dell’arca. Quando Dio impartisce gli ordini per la sua costruzione, dice che la nave deve essere “spalmata di pece di dentro e di fuori”, resa cioè impenetrabile all’acqua, per non affondare. Per Bonhoeffer, che vive nella Germania hitleriana, il senso di questa istruzione è questo: rendi impermeabile la chiesa a ogni infiltrazione nazista, affinché la chiesa non coli a picco. E la pece con cui la chiesa, la barca di Bonhoeffer, dev’essere spalmata è, secondo lui, la parola biblica. Quella parola biblica, meditata giornalmente, che fa capire a Bonhoeffer la necessità di difendere gli ebrei dall’incombente pericolo. E Bonhoeffer, come Noè, orienta la propria vita su questa parola. Assurda, per i suoi contemporanei, assurda anche per molti membri della sua chiesa, convinti che ci fossero cose migliori e più urgenti da fare, prima fra tutte quella di trovare accordi con il nuovo cancelliere del Reich.
La speranza è attesa, un’attesa alimentata da una parola di Dio che apre una visione e determina un’azione, marginale, inquietante, tacciata spesso di anacronismo, e spesso incomprensibile anche alle persone più vicine.
Tra l’esperienza di Noè e la nostra esperienza, tra la situazione di Noè e la situazione in cui noi viviamo, c’è una differenza sostanziale. Noè sente la voce di Dio, mentre noi non sentiamo questa voce. Noè conosce la voce di Dio, noi conosciamo il silenzio di Dio. Noè conosce la presenza di Dio, noi conosciamo la sua assenza. Dio ci ha abbandonato.
Da cosa si può dedurre che Dio ci abbia abbandonato? Se Dio fosse veramente all’opera, se il suo Spirito agisse, nella nostra chiesa, lo si dovrebbe vedere. Che lo Spirito di Dio non agisca nella nostra chiesa lo si deduce dalla nostra mediocrità: sul piano della libertà, non abbiamo esplorato territori sconosciuti; sul piano della proclamazione del messaggio evangelico, non siamo particolarmente efficaci, non suscitiamo grandi entusiasmi, non scuotiamo le coscienze; sul piano dell’impegno etico, non andiamo molto oltre la pratica delle virtù dettate dal buon senso comune. La latitanza dello Spirito emerge dalla nostra capacità di ridurre la chiesa a istituzione, a corpo quasi unicamente sociologico, e dal conformismo e dalla ricerca del consenso della società in cui siamo posti a vivere.
Il silenzio di Dio e la sua assenza è un fatto avvilente, che ci vorrebbe ricacciare nella rassegnazione. Ma non deve essere così. Proprio qui possiamo scoprire che la speranza, oltre che attesa, è anche un’altra cosa.
La speranza cristiana consiste, oggi, nel protestare davanti a questo Dio che ci lascia nel silenzio, che ritira da noi il suo Spirito. La speranza cristiana non consiste, oggi, nel riporre la nostra fiducia nel fatto che le cose miglioreranno, bensì nel presentare la nostra protesta a Dio. Come fa la vedova della celebre parabola di Gesù (Luca 18,1-8), la quale bussa senza posa alla porta del giudice che le deve giustizia. Questa è la speranza che noi siamo chiamati a riscoprire, oggi.
Se veramente Dio ci può salvare, se veramente egli può darci coraggio e fede, se veramente può aprire i nostri occhi, se veramente sono valide anche per noi le sue promesse, allora le mantenga, allora si mostri, allora parli. Noi rifiutiamo che Dio ci lasci e che non parli più. Questa protesta è, oggi, la nostra preghiera, e questa preghiera esprime la nostra speranza.
Dobbiamo pentirci, umiliarci, confessare il nostro peccato, certamente, ma senza smettere di chiedere con insistenza a Dio di aprire le porte, come ha promesso.
Piccole preghiere, piccole azioni politiche, piccole teologie, piccole vite cristianamente ben ovattate e moralmente impegnate sono il frutto della rassegnazione; dove c’è speranza lì c’è protesta di fronte al silenzio di Dio.
Pastore Paolo Tognina