Poschiavo, sabato 17 dicembre 2023, Casa Console: inaugurazione della mostra “Varlin Passione figurativa”. Il direttore Moreno Raselli, che ha voluto fermamente la mostra, spiega e quindi lascia la parola a tre persone, come da programma.
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Il primo, Ilario Bondolfi, presidente del Consiglio della Fondazione Casa Console, chiude il proprio intervento con questa frase di Varlin: «L’uomo si ammala quando l’occhio si annoia».
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Il secondo, Gian Casper Bott, curatore della mostra, in chiusura cita così Varlin: «L’uomo si ammala quando l’occhio si annoia».
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La terza, Patrizia Guggenheim, figlia di Varlin, «L’uomo si ammala quando l’occhio si annoia».
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Dunque bando alla noia. Ci torneremo non prima di aver ricordato che la frase di Varlin è servita come titolo di un volume curato dalla figlia e dal di lei consorte Tobias Eichelberg (presente a Poschiavo), tradotto da Raffaella Adobati Bondolfi e pubblicato nel 2007 da Le Lettere, Bagno a Ripoli.
Ma chi era Varlin? Si ha notizia che fosse un libertario e ribelle francese, Comunardo parigino, assassinato nel 1871 dalle truppe al servizio del Governo. Il “nostro” invece nacque a Zurigo nel 1900: il suo nome era Willy Leopold Guggenheim (niente a vedere con i ricchissimi americani, anche se pare che i Guggenheim fossero tutti provenienti dal Canton Argovia). Un amico parigino gli suggerì di cambiare Guggenheim con Varlin. Suggerimento accettato. Dopo gli anni di formazione berlinesi e parigini nel 1932 tornò definitivamente nella città natale, finché non incontrò la bregagliotta Franca Giovanoli. Nel 1963 si sposarono e si trasferirono definitivamente a Bondo.
In mostra a Poschiavo ci sono 30 opere, poche se paragonate alla sterminata sua opera (abbiamo in mente una sua foto da tergo in cui trasporta sotto braccio una decina di tele di medie e grandi dimensione arrolate) e tuttavia ben rappresentative.
E alcune tele di grandi dimensioni le troviamo nella sala maggiore al pianterreno di Casa Console. Tra queste spicca “Omaggio a Segantini”, famosa tela per il titolo, per il soggetto (due mucche) e perché è notissimo l’uso di sterco bovino usato per il colore e per lo spessore aggrumato che ci apre alla quarta dimensione. Tela già vista nella mostra del 2009 a Sondrio.
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Ancora una seconda grande tela: quella del 1971-72 “Bondo nella neve”. Tutti i grigi possibili insieme a bianco sporco per rappresentare quello che è il suo villaggio in inverno. Quasi (quasi) al centro una casa, distrutta nel 2017 dalla gigantesca frana che isolò anche l’atelier del “nostro”. Giuseppe Frangi, amico di Giovanni Testori, che incontreremo più avanti, scrisse sul quotidiano “Il manifesto” che «qualcuno può aver pensato che se la montagna si era mossa dovesse centrare in qualche modo Varlin, per via di quella sua pittura squassata e squassante che trasformava le tele in epicentri di terremoto. Un pensiero surreale che però “ci sta”, se non altro perché Varlin, con la sua ironia, sarebbe stato il primo ad accreditarlo».
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Ironia (e peggio, molto peggio!): ci torneremo più avanti, non senza segnalare un quadro esemplare in mostra, ovvero quello che presenta un signore inglese che beve té. Qui la vena satirica si esprime in una feroce caricatura. Ma attenzione, Varlin rifuggiva, come la peste, la catalogazione di ritrattista caricaturista. Per chi scrive il riferimento è ai ritratti assolutamente espressivi di Honoré Daumier e a quelli tragicorrendi di Goya. Siamo quasi sicuri che Varlin potrebbe essere d’accordo.
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E poi ci piace sottolineare la presenza nelle tele di soggetti, meglio oggetti, che, come suggerito da Bott, possono tramutarsi in geroglifici paradigmatici.
L’invito è ad osservare per esempio le proposte di ombrelli (uno bianco ed uno nero), scarpe e pattumiere, ciucci e scatole di fiammiferi.
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Troneggia in una delle tre sale la tela raffigurante la “povera” Patrizia (la figlia) su di un cavallo da giostra evolutosi in gigantesco cavallo a dondolo. “Povera” Patrizia, perché lei e tutti i bambini del mondo vorrebbero scappare e nascondersi quando i padri li voglio ritrarre (su tela o con mezzi moderni).
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Varlin viaggiò in Inghilterra (come s’è visto), in Francia (e in mostra troviamo tele evocative) e altrove. Giova ricordare un viaggio a Napoli tra ’60 e ’61. Qui esiste un palazzo Guggenheim, tra il Vomero e Chiaia. Dubitiamo molto che si sia fatto lì ospitare dai miliardari “cugini” americani. Di questa sosta abbiamo una pubblicazione, curata da Vittorio Sgarbi, che contiene una lettera alla “sua” Franca Giovanoli e alcune sue grafiche. In una, egli mostra un clamoroso segno del Moderno, come l’insegna di un distributore della benzina Supercortemaggiore (oggi Eni) con il cane a sei zampe che sputa fuoco: modernissimo ed arcaicamente evocativo di miti e leggende. Sulla parte destra troviamo poi un simulacro presente dappertutto nel Mezzogiorno d’Italia: la Croce con gli strumenti della Passione. Croce che rimanda alle tante croci presenti nelle opere di Varlin, come notato e ricordato da Testori.
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E in mostra troviamo “Negozio di kitsch e souvenir”, dipinto proprio a Napoli su due piccole lastre di faesite azzurra, colore che emerge parzialmente, frutto della tecnica “sporca del non finito” molto frequente in Varlin. Nel dipinto c’è veramente di tutto: “scugnizza e scugnizzo” in grembiule scolastico, il “putecaro”, rispettabilmente vestito, e tele per turisti con un improbabile lago alpino, con marine, con la paventata eruzione del Vesuvio, con donne del Mito e naturalmente con Madonne, Cristi e Crocifissi. Manca solo san Gennaro e l’ampolla del suo sangue.
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«I punti di contatto tra Varlin e Poschiavo sono pochi. Il catalogo ragionato dell’artista riporta un paesaggio del Lago Bianco sul Passo del Bernina, dipinto intorno al 1948. Nel 1961, nel suo studio al Neumarkt a Zurigo, Varlin iniziò un ritratto del pediatra Guido Fanconi di Poschiavo, un’opera commissionata che completò tre anni dopo. Nel 1969 Not Bott si recò a Bondo per visitare Varlin. Nel settembre 1971 Varlin partecipò all’inaugurazione della Grande Stele di Robbia di Mario Negri e incontrò Wolfgang Hildesheimer a Poschiavo. In seguito, il pittore scrisse allo scrittore che stava leggendo il suo libro «Tynset», così Gian Casper Bott nella presentazione e nel Leporello della mostra.
A completare il panorama retico subalpino si può ricordare una foto del 1966 durante i funerali di Alberto Giacometti. Varlin è già qui a colloquio con Mario Negri. Un passo avanti loro Serafino Corbetta. Medico a Chiavenna, amico del “nostro” e da lui ritratto, tramite con il critico e drammaturgo Testori (anch’egli ritratto dal “nostro”) che contribuì molto a farlo conoscere in Italia con l’esposizione milanese del 1976 alla Rotonda della Besana.
È stato scritto che proprio Testori «ha un approccio innovativo all’opera di Varlin rispetto a come era stata recepita in Svizzera. Se fino ad allora i critici d’arte si erano soffermati essenzialmente sulle tematiche della bohème, vedendo nei suoi lavori soltanto il lato clownesco, Testori va oltre cogliendone tutto il significato tragico legato alla rappresentazione della tristezza, della solitudine e della nostalgia».
Testori afferma precisamente che «[…] della pittura di Varlin, di questo misconosciuto, protervo, sgangherato e, insieme, sublime Maestro, uno dei pochi della sua generazione (che coincide con l’alba, cioè a dire con l’uè-uè smaniante e avanguardistico del nostro secolo) che abbia l’aria di passare indenne dai complicati tornanti delle mode; uno dei pochi – e questo è già definibile – che han preso a dare il massimo di sé quando gli altri han cominciato da un pezzo a rallentare la corsa del loro treno (di pittura, intendo, non di vita) e a sclerotizzarsi nella ripetizione; di questa pittura mi toccherà forzatamente parlare, non solo quale testimone (per averla, cioè, inseguita e perseguita da anni) bensì, come ogni visitatore può vedere, quale oggetto o soggetto in causa».
Chiudiamo con Patrizia. Lei ricorda oggi come suo padre, per esempio, stupiva i presenti andando ad immergersi in una fontana lì vicino per poi riemergere e con estrema disinvoltura riprendere i fili dei discorsi. Ci sono poi due foto emblematiche: la prima, ricordata da Bott, scattata a Wallstreet in cui lo si vede rovistare in un cesto di rifiuti.
E viene in mente la scultura di Maurizio Catellan di fronte alla Borsa di Milano: una mano con le dita mozze salvo il medio ben eretto a fini critici e apotropaici.
In una seconda foto del 1973 lo vediamo travestito da capostazione con berretto e paletta regolamentari alla stazione ferroviaria di Bondo. Come? A Bondo non arriva la ferrovia?
Sì, per Varlin.
Servizio bellissimo, nella composizione e vivacità, come la mostra del resto, grazie Piergiorgio!