Commento su “Eppure le margherite sono uguali” di Loreta Godenzi

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Loreta Godenzi ha voluto presentare a Campocologno il suo libro Eppure le margherite sono uguali, ovviamente come omaggio alla contrada in cui ha passato la sua infanzia e di cui illustra la vita intorno alla metà del Novecento. L’ha esibito con umiltà quasi a significare che si tratti di un’opera di interesse più che altro locale ma, come affermano i suoi commentatori, si tratta di un libro interessante per tutti, anche per chi con Campocologno non ha nessuna relazione.

Al di là di una lucida analisi di quanto piccolo o apparentemente insignificante possa essere, chi non ha provato e prova un sentimento di profondo attaccamento per il luogo della propria infanzia? Chi non ha provato desideri di evasione, sentimenti di paura e di condanna per minacce e ingiustizie vere o presunte, noia per pratiche religiose infelicemente imposte, amore per i genitori e per la propria gente, l’impulso a parteggiare per i più sfortunati, il bisogno di inclusione? Ebbene questi sono gli argomenti che danno vita alle pagine autobiografiche di Loreta, per cui ognuno vi si può rispecchiare, ci può trovare atteggiamenti e sentimenti della propria infanzia e personalità.
Loreta è ben lontana dal descrivere Campocologno come un luogo idillico, bello e attraente. Al contrario mette in luce i suoi aspetti più sventurati come la sua posizione incastrata tra due versanti ripidi e minacciosi della montagna e con poco cielo. Un luogo da cui sente il bisogno di evadere, di cercare rifugio e sollievo dalla realtà attraverso sogni, attività o immaginazioni che la trasportano in un mondo o in una situazione più piacevole o ideale. Quel luogo utopico per Loreta è Tirano, l’Italia, la sua cultura la sua gente. Ciò la porta a un continuo confronto tra il dialetto e la lingua, tra la realtà locale e quella ideale e soprattutto a una grande apertura mentale. Ciò non toglie che in definitiva lei non dipinga Campocologno come un luogo unico per cui non lo vorrebbe barattare col più bel posto della terra.

Oltre alla limitatezza geografica e paesaggistica del luogo, all’origine del suo escapismo – così si definisce questa tendenza a evadere – c’è anche la paura, la profonda sofferenza per i trattamenti ingiusti che vede subire dalle persone più indifese. Una realtà dovuta a un residuo di metodi educativi basati sull’autoritarismo e sulla violenza, su un insegnamento rigido, che non tiene conto delle necessità psicologiche e intellettuali dei bambini. Una realtà per cui Loreta prova la più intensa repulsione, di fronte alla quale si sente del tutto impotente. Per contro, affronta la noia mettendo in luce una serie di risorse interiori ed esterne: l’amore dei genitori e delle amiche, le innocenti marachelle, i giochi, l’osservazione della vita in paese, il contrabbando e le guardie di confine, piccoli servizi, il lavoro del padre nella centrale idroelettrica, visite e incontri di preferenza con persone meno fortunate.

Con poche pennellate ne ritrae i tratti fisici caratteristici, riporta vari aneddoti esilaranti con le loro memorabili battute, sempre in dialetto con la relativa traduzione. Crea così una galleria particolarmente cara a coloro che hanno conosciuto quei tempi e quelle persone, e nel contempo un documento di particolare valore antropologico e storico.

Massimo Lardi