Nella scorsa fine di settimana la compagnia «inauDita» ha messo in scena per ben tre volte in Casa Besta, a Brusio, il pezzo teatrale «MARAYA Dell’amore e della forza», di e con Begoña Feijo Fariña. Una recita di circa un’ora in cui l’attrice, scrittrice e drammaturga divenuta ormai brusiese d’adozione si cimenta con l’arte per nulla scontata del monologo. Un battesimo del fuoco che Begoña ha saputo magistralmente superare senza alcun imbarazzo o esitazione.
Con questo pezzo carico di sofferenza ma anche di determinazione frammista a speranza, Begoña ha ripreso sia tema che personaggio principale del suo ultimo romanzo «Maraya», pubblicato dall’editore AUGH! nel 2017. In particolare, nella trasposizione teatrale è stato ripreso il tema cardine finale, ossia l’ascesa verso la sommità di una collina da parte della sua protagonista: una scelta narrativa che rimanda a una simbologia comune a molte culture e religioni del mondo, in cui l’ascesa è un percorso verso Dio, il progresso, la conoscenza o l’elevazione personale.
Se però nel romanzo l’immaginazione permette al lettore di vedere la scena fra i sentieri tortuosi della collina, nell’esibizione sul palcoscenico l’evocazione dell’ambiente naturale suggerita dalle parole subisce lo smacco della scenografia. La riduzione teatrale di Maraya diventa così qualche cosa di diverso dal romanzo; la scenografia scarna, resa con un telo nero sullo sfondo, un divano, una coperta, alcuni cuscini e un tavolino rigorosamente neri, e l’abbigliamento négligé dalle tonalità grigie indossato dall’attrice, rimandano di continuo alla triste vicenda di Maraya dentro le quattro mura di casa, in lotta contro i propri fantasmi.
In questo monologo interiore Maraya alterna la descrizione dell’ascesa al monte a dialoghi immaginari con soggetti cui è legata da storie del passato e del presente. È il caso, ad esempio, del fidanzato da cui è stata lasciata, oppure della bottiglia di whisky che “non ti tradisce mai perché la trovi sempre dove l’hai lasciata”, del figlio tanto desiderato e abortito, o di un sospetto maniaco incontrato sul sentiero. Ma la protagonista dialoga pure, implorandolo, con Dio, o con animali e elementi tipici del sentiero collinare evocato.
La monotonia appositamente voluta della scena è interrotta solo a tratti da un gioco di luci e suoni ottimamente abbinati al susseguirsi della narrazione, in una girandola di flash back provocati da conati di vomito, dallo stridore di un trapano proveniente da un cantiere edilizio attiguo all’appartamento, ma anche da momenti di illuminazione forieri di buoni propositi, che sul finire prenderanno il sopravvento nella mente di Maraya. Mentre sullo sfondo stagnano le problematiche legate alla condizione femminile, alla dipendenza da alcol (o a qualsiasi altro tipo di dipendenza) e al sentimento di sconfitta per il rifiuto da parte della persona amata.
Assente dallo spettacolo, la musica, in una sorta di rito catartico e liberatorio, giunge in soccorso ad attrice e pubblico solo sul finire della recita con un ipnotico brano tratto dall’album «Drinking Songs» di Matt Elliot, seguito dal ballabile «The Passenger» di Iggy Pop.
La presenza di un pubblico un po’ troppo esiguo per uno spettacolo di tale levatura (forse anche a causa di altre concomitanze) non può e non deve assolutamente scoraggiare la brava attrice-autrice dalle radici spagnole, che saprà sicuramente regalare – a chi lo desidererà – le identiche emozioni nelle repliche che si terranno fra l’11 e il 13 gennaio prossimo.
Achille Pola
Un monologo meraviglioso, intenso e drammatico.
Brava Begonia. Carpe diem.Nando Nussio