Trent’anni fa, un mezzogiorno alpino, di dolore e disperazione

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La frana della Val Pola

La devastazione dell’alluvione, la paura, il desiderio di essere là

Quel giorno, mentre tutto accadeva, ero lontana, lontanissima dalla “mia” Valtellina; la mia giornata iniziava quando quassù il disastro si consumava. Ricordo come fosse ora il volto e la voce un po’ sguaiata di quella commessa che mi chiedeva se fossi italiana, se sapessi dell’alluvione che, non sapeva dirmi dove, aveva devastato il nord Italia. Ero in vacanza (ancorché, come si usava un tempo dire, in vacanza studio), poco incline a seguire i telegiornali stranieri, ma quell’annuncio così brutale e per certi versi accorato mi mise subito in allarme.

“E se l’alluvione fosse proprio in Valtellina?” dissi alla mia amica che con me divideva giorni di spensieratezza. Passai la mattinata attaccata al telefono di una delle tante cabine; non era epoca di cellulari e per chiamare casa si usavano le “collect call”, le chiamate a carico del destinatario. Chiamavo, chiamavo ma il telefono non squillava o squillava a vuoto; lassù, in Alta Valle, c’erano mia nonna, mio fratello, forse anche i miei genitori che avrebbero potuto essere là per una breve pausa di lavoro. L’inquietudine cresceva, i pensieri correvano veloci e le notizie semplicemente non arrivavano. Solo a sera, quasi l’alba in valle, ecco la voce rassicurante di mia mamma; lassù, mi dice, sono isolati ma noi stiamo bene, siamo al sicuro.

Fu così che ebbe inizio l’estate tragica del 1987, l’estate che segnò la cesura definitiva da una Valtellina schiva e riservata, un po’ spigolosa, tanto da apparire ripiegata su di sé. I disastri di quel luglio segnarono tutti, chi fu violato dalla durezza degli eventi, chi prestò soccorso con dedizione e passione, chi si trovò illeso ma non poté certo sottrarsi al dolore composto e silenzioso delle genti di Valtellina.

Quando il peggio sembrava superato, la frana del Val Pola isolò Bormio e i Comuni della Magnifica Terra creando un lago che crebbe e crebbe, sempre più minaccioso, fino a quella giornata epica, in cui ci si decise per la tracimazione forzata. Atterravo a Milano mentre la frana si abbatteva sulla valle e risaliva una parte del versante opposto, risparmiando solo la Chiesetta di San Bartolomeo. Non ebbi tentennamenti: tempo di cambiare la valigia e via, di corsa, verso Bormio, salendo al Maloja, passando poi la Forcola e Livigno, unica strada per aggirare il fronte franoso e l’immensa diga naturale sorta all’improvviso.

Lassù c’era la famiglia, c’erano gli amici: andavano raggiunti per condividere almeno una parte del dolore. Fu un’estate di silenzi, di occhi alzati a spiare il cielo, pieno di pioggia o affollato di elicotteri; fu un’estate di giornali letti avidamente, di ore trascorse a osservare i soccorsi, ascoltare commossi gli amici di quassù, pensare alla ricostruzione. Fu un’estate di camminate, avanti e indietro dall’enorme cantiere della Val Pola, per capire se e come il Lago avrebbe potuto ritirarsi.

Pioveva quando venne il tempo del rientro in città; promisi che sarei tornata il giorno della tracimazione forzata e così fu. Accompagnata dall’amica che aveva condiviso la mia preoccupazione in quella vacanza studio valicammo, sotto una precoce nevicata, i passi in terra grischuna e fummo nuovamente nella Magnifica Terra, con il fiato sospeso e la speranza in un nuovo inizio.

Fu così che l’uomo e la natura seppero fare il miracolo atteso, l’Adda tornò a correre nel suo paleo alveo, il lago si svuotò, risparmiando le terre a sud di Bormio; per mesi si viaggiò su una pista sterrata, spesso con staffette organizzate dai soccorsi, ma l’Alta Valle seppe costruire una nuova “normalità”.

Da allora il mezzogiorno alpino abbraccia le sue genti: Nel gran cerchio de l’alpi, su ‘l granito squallido e scialbo, sui ghiacci cadenti – regna sereno, intenso e infinto – nel suo grande silenzio il mezzodì. (da Mezzogiorno Alpino, Giosuè Carducci)


Chiara M. Battistoni