Si può tranquillamente dichiarare, senza correre il rischio di fraintendimenti, che nella sua pluridecennale attività Valerio Maffioletti ha certamente rivoluzionato il modo di fare teatro in Valposchiavo. Con lui le filodrammatiche di valle hanno conosciuto e sperimentato il teatro moderno e una maniera nuova di prepararsi alle luci della ribalta. Il rigore scenografico e legato ai testi drammaturgici ha lasciato spazio a una maggiore creatività, lavorare e stare in gruppo ha assunto nuovi significati e la musica è divenuta parte integrante degli spettacoli. Un’impronta che durerà a lungo Valerio la sta lasciando anche con la sua grande passione e dedizione per il teatro dei più piccoli, il “Cioccolatino”, ma non si può nemmeno fare a meno di menzionare le numerose cene-spettacolo con il quartetto “4-Tempi”. Il prossimo fine-settimana il regista dalle radici bergamasche si presenterà ancora davanti al pubblico di casa nostra con l’ultima fatica del “Cioccolatino”. Prima di questo spettacolo, che saprà ancora una volta riempire di magia il cuore e la mente di tutti gli spettatori, gli abbiamo voluto rivolgere alcune domande per fare il punto della situazione.
Recentemente la tua attività teatrale in Valposchiavo è stata particolarmente intensa: “Cantinpanchina” con i 4-Tempi, “La fata carabina” con la Filodrammatica Poschiavina e a breve il prossimo teatro del “Cioccolatino” con il Laboratorio teatrale Pgi per bambini. Puoi darci un giudizio sullo stato di salute del teatro in Valposchiavo?
Direi buono, anzi molto buono. Sia da parte del pubblico che risponde sempre molto generosamente alla “chiamata” dei suoi attori in scena, sia da parte dei partecipanti ai vari laboratori teatrali. Mi meraviglio e persino mi commuovo nel vedere con quale pazienza, quanto impegno ed entusiasmo tante persone, dalle età e dalle professioni più disparate, sostengano senza batter ciglio le numerose prove, lasciando i comodi divani televisivi per affrontare due, tre volte la settimana il freddo, la neve, il ghiaccio insidioso (uno dei nostri ha fatto testacoda con l’auto una notte scivolando sull’asfalto, per fortuna senza gravi conseguenze). Chi glielo fa fare? La risposta viene spontanea: il teatro fa star bene, sia per chi lo fa sia per chi lo guarda: il teatro è terapia!!
Nello spettacolo della Filodrammatica Poschiavina sei riuscito a inserire una rappresentanza della Filodrammatica brusiese e due ragazzi provenienti dal “Teatro del Cioccolatino”. Insomma, quando si dice raccogliere i frutti di molti anni di lavoro…
Il mio sogno è sempre stato un Pan-teatro: far recitare tutti e insieme, al di là degli steccati ideologici, campanilistici, classisti, di età, condizione fisica e mentale, per creare più vaste unità e ampie cooperazione. Sogno o son desto?
Sia “Cantinpanchina”, ispirato da un libro di Bebbe Sebaste, che “La fata carabina”, di Daniel Pennac, trattano di tematiche legate al malessere sociale della società contemporanea con una buona dose di ironia. Pur nella loro radicale differenza drammaturgica, potremmo definire questi due pezzi delle commedie impegnate?
Se per impegno intendiamo provare a guardare dietro la patina artificiale del siamo-tutti-buoni e belli e felici, la risposta è sì. La funzione sociale del teatro è proprio questa: aiutarci a “guardare” il brutto, lo storto, l’ingiusto del mondo e provare a migliorarlo. La ricetta – come vedi si sta sempre in ambito culinario – è comunque sempre quella di non prescrivere mai medicine troppo amare. Viva la leggerezza e l’autoironia! S’impara di più a volte con un sorriso, o no?
Il disagio sociale è fonte di conflitti e l’arte drammatica è rappresentazione di un conflitto. Le tue scelte drammaturgiche si collocano quindi nel solco della migliore tradizione, o sbaglio?
Il teatro è politico! Cioè si deve prender cura della polis! Attenzione però: far politica non vuol dire far proseliti per quella o quell’altra ideologia ma, come ci suggerisce il maestro Federico Fellini, «Io non voglio dimostrare nulla, voglio solo mostrare!».
Nella “Fata carabina” l’ambientazione è quella di una metropoli: le conflittualità che coinvolgono la famiglia Malaussène sono riscontrabili anche nelle nostre regioni di montagna oppure qui l’anticonformismo non è tanto di casa?
Nella “Fata carabina” è vero, siamo catapultati in una zona molto conflittuale, una metropoli, dove le tensioni sociali dovute alla convivenza di gruppi assai diversi e numerosi (etnie, anziani e giovani) portano necessariamente a un confronto a volte drammatico. In Valposchiavo forse si sente meno l’eco di cotanta tensione, ma, ma… siamo pur sempre coabitanti di un pianeta sempre più piccolo, e le difficoltà degli altri dovrebbero muovere dentro di noi una sorta di com-passione, che dici? Senza contare che già di per sé il percorso verso il decadimento fisico e psichico è una sfida che coinvolge ormai un numero sempre più grande di persone. Come reagiamo a quest’idea della non permanenza, della solitudine? Ci disperiamo, ci deprimiamo? O proviamo a organizzarci in autobus colorati pieni di giocose emozioni condivise? Dead can dance?
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Avevi già messo in scena l’opera di Pennac con altre compagnie o gruppi teatrali oppure si tratta di una prima? Ci puoi svelare per quale tramite ci sei arrivato?
Si avevo già messo in scena “La Fata Carabina” a Tirano con la compagnia Energhia, nel 2005. Ma ho dovuto riscriverla praticamente da capo sia per la presenza di almeno il doppio degli attori, sia per la mia mutata sensibilità. Nel percorso di lavoro drammaturgico infatti mi capita spesso di attingere testo, idee, azioni dalla lettura di libri che mi hanno particolarmente colpito (vedi il recente “Tynset” di W. Hildesheimer, o “Panchine” di B. Sebaste). Nel volgere degli anni però, soprattutto quando si rivede un lavoro già affrontato, si notano lacune, banalità, cose superflue, altre dimenticate da esplorare, esigenze di riscrittura, voglia di sperimentare nuove azioni. Il romanzo di Pennac è tra l’altro molto complesso, ricco di personaggi, scene e colpi di scena, risvolti psicologici, momenti di pura poesia, visioni del mondo che si alternano come i fuochi d’artificio in una festa di capodanno. Le attrici e gli attori della “Filo” si sono pure loro appassionati e, sebbene all’inizio hanno avuto un po’ di difficoltà a capire dove volevo andare a parare (compreso che anche il regista voleva saperlo e a volte non lo sapeva nemmeno lui, se non sperimentandolo con gli attori sul palco), poi poco alla volta si sono immedesimati al punto che ancora adesso si “whatsappano” utilizzando i nomi dei loro personaggi adattati alle varie situation comedy della loro vita quotidiana. Il commento più bello comunque, subito dopo lo spettacolo, mi venne da una graziosa signora del pubblico, la quale, con occhi ancora pieni di stupore per ciò a cui aveva appena assistito, mi disse: «Ma questo spettacolo è una primavera…!».
Lo spettacolo “Cantinpanchina” conteneva numerose parti musicate dal vivo. Pure ne “La fata carabina” non sono mancate numerose parti cantate, eppure i pezzi non sono dei musical. Dove sta esattamente la differenza?
Il cantastorie – hai presente quel tipo con un cappello floscio, che andava di paese in paese, accompagnato da una chitarra o da una fisarmonica, un cagnolino e una valigia – è una figura archetipica. Appartiene alla tradizione secolare del teatro (trovatori, menestrelli). Insomma, quando si tratta di raccontare storie, che ci facciano piangere, ridere, pensare, sognare, l’arte del narratore è sempre nel suo saper in-cantare…! Può essere un semplice accompagnamento che faccia da tappeto musicale alle parole, oppure un canto che utilizza parole inerenti alla vicenda (musical), o canzoni vicine alle atmosfere evocate… o solamente la propria voce utilizzata in modo sapiente. E, da sempre, la parola è musica!
Per rimanere nel filone del teatro impegnato, anche con i bambini/ragazzi del “Cioccolatino” il prossimo 15/16 marzo presenterai una fiaba di Giorgio Strehler che tu stesso hai definito “dal forte impatto etico”. A chi sono principalmente rivolte secondo te le fiabe, ai bambini o agli adulti?
Per l’esattezza, questa del Cioccolatino di quest’anno, “La storia della bambola abbandonata”, è più una favola con intenti didattici, che non una fiaba. La fiaba, vedi, è un racconto che viene rivolto ai piccoli per aiutarli nel processo di crescita, aiutandoli a riconoscere i personaggi buoni e cattivi, le situazioni pericolose, abituandoli all’idea che nella vita ci sono sì difficoltà, ma che possono essere affrontate e superate con l’ausilio delle proprie risorse e con l’aiuto degli altri. Nella favola si vuole invece “spostare” gli elementi del conflitto in un contesto più vicino alla realtà, senza interventi di aiutanti magici o soprannaturali, con l’intento di farci riflettere e quindi di aumentare il nostro senso di consapevolezza. In questo caso il lavoro della “Bambola” si rivolge anche al pubblico adulto. Del resto anche Cappuccetto Rosso veniva raccontata alle giovinette di buona famiglia ai tempi del Re Sole per redarguirle sui pericoli del bosco…
A cura di Achille Pola
Grazie Achille per questa bella intervista. E grazie Valerio per l’artista genuino che sei e che resti sempre!
Grande Valerio!
Creare scenografie con te e per te nel senso che erano anzitutto i tuoi pezzi, non era facile.
Ma, sempre, bellissimo poterlo fare assieme a te. Mi lasciavi tanto spazio e libertà (o pensandoci, forse mi prendevo sia uno che l’altro…). Poter collaborare con un personaggio come il tuo, era per me come vivere “uno spettacolo nello spettacolo”, che era poi la rappresentazione teatrale vera e propria. Custodisco ancora vari testi, schizzi e fotografie. Da alcune scene “dietro le quinte”, nascevano dei fumetti/disegni…tanti bei ricordi, Grazie!
Ma, mica stiamo scrivendo un necrologio! Chissà, forse avrai nuovamente bisogno delle mie brillanti capacità creative e faremo ancora cose assieme. Un caro saluto.
Caro Valerio,
se io amo ancora tanto il teatro è anche grazie a te. Carpe diem Nando Nussio.