La figura del fotoreporter (o fotocronista), si situa a metà strada fra quella del giornalista e del fotografo. Alle volte un’immagine può persino spiegare meglio un contesto di cronaca che molte parole, in quanto la fotografia è portatrice di un linguaggio non mediato e molto efficace, ed è ormai divenuta un elemento imprescindibile in cronache e reportage giornalistici. Michele Crameri (classe 1983) è nato e cresciuto in Valposchiavo e negli scorsi anni ha ricevuto numerosi premi internazionali in concorsi per fotografie giornalistiche. In un articolo di Serena Visentin, apparso ne “Il Grigione Italiano” del 4 agosto 2016, si parlava della sua passione divenuta ormai professione e dei vari progetti che intendeva sviluppare. Uno di questi è il fotoreportage condotto fra i sicari di San Pedro Sula in Honduras e denominato “Sicario, a job like any other”, che lo ha catapultato sulla scena internazionale dei fotoreporter e di cui ha parlato anche ai microfoni di TeleSondrioNews nel febbraio del 2017. Grazie alle menzioni ricevute per questo suo lavoro, nel dicembre del 2018, è stato contattato dallo Spiegel ONLINE per un’intervista che è stata pubblicata il 14 maggio scorso. Nel frattempo però qualcuno in Honduras si è insospettito e si sono sollevate pesanti accuse sulla presunta simulazione di alcune scene riprese nei suoi scatti. A seguito di queste accuse il 24 giugno scorso Michele ha chiesto pubblicamente scusa a tutte le persone coinvolte nella vicenda per quanto accaduto con un post sul suo sito Facebook (che però nel frattempo non è più pubblico), dove spiega che malgrado avesse sempre riferito alla sua agenzia milanese ParalleloZero che le foto non erano state montate, alla luce di quanto è recentemente emerso, deve ora ammettere che ciò non è vero. Per cercare di far luce su questa opaca vicenda, nelle scorse settimane Il Bernina ha contattato Michele Crameri, che ha accettato di rilasciare la seguente intervista.
Per maggiori informazioni riguardanti le foto contestate clicca anche:
https://fstoppers.com/originals/award-winning-photojournalist-accused-faking-photos-assassins-372995
oppure
https://elpulso.hn/fotografo-acusado-de-falsear-en-honduras-fotos-ganadoras-de-premios/
Quali menzioni o premi hai ricevuto esattamente grazie al tuo reportage fotografico dal titolo “Sicario, a job like any other”?
Una menzione d’onore nell’I.P.A. International Photography Awards, poi sono arrivato finalista al LensCulture Contemporary Photography e fra i primi tre al Miami Street Photography Festival; al Lugano Photo Days ho passato la prima selezione. Sono dei concorsi a cui uno si iscrive per conto proprio e nella maggior parte dei quali solitamente si paga una tassa d’iscrizione che può variare fra 10, 15 o 30 dollari per partecipare. Di regola il primo classificato riceve un compenso in denaro o un premio simbolico, ma grazie a una menzione i partecipanti guadagnano comunque in visibilità.
Al di là della veridicità di alcune foto scattate, il progetto che hai svolto in Honduras era legato a rischi non indifferenti. Cosa ti ha spinto ad affrontare un simile genere di lavoro?
Beh, sicuramente la voglia di far conoscere una realtà diversa da quella cui siamo abituati qui da noi. Una realtà violenta, dove la violenza pervade ogni ambito della vita e in cui la gente si ritrova quotidianamente in mezzo alla morte e agli omicidi. Nel 2014 San Pedro Sula, stando alle statistiche, aveva un tasso di omicidi dieci volte superiore a quello di Baghdad in tempo di guerra; c’è un centro città dove la gente “bene” vive tranquilla e un fuori città dove non è guerra dichiarata, ma si vive come se vi fosse una guerra civile. Una guerra tra bande e tra chiunque.
Solitamente il fotografo o il fotoreporter viene visto come un idealista al servizio della notizia e della verità: una persona che mette a rischio la propria vita per mostrare ad altri verità scomode. Quanto vale ciò anche per te?
Per me questo vale molto e non è una questione di soldi, anche perché non è facendo questo mestiere che si guadagnano delle cifre stratosferiche. Il giornalista o il fotoreporter lo fa per il desiderio di documentare.
Hai svolto reportage anche assieme a giornalisti o hai sempre fotografato per conto tuo delle realtà specifiche per poi inviare le tue foto alle agenzie?
No, ho sempre lavorato da solo.
Lo scorso 24 giugno su Facebook hai chiesto pubblicamente scusa e ti sei assunto la piena responsabilità di quanto è successo. Ma per cosa chiedi scusa esattamente?
Chiedo scusa per aver diffuso una notizia con un contenuto non del tutto vero, nel senso che io ero convinto di avere fotografato delle scene reali. Che si è trattato di una simulazione o di una scena non del tutto reale l’ho scoperto solo adesso. Sarà per ingenuità, sarà perché provenendo da una realtà tranquilla come Poschiavo mi sono ritrovato catapultato in un luogo dove le armi circolano ovunque, sarà perché in quel momento vedevo solo lo scatto dell’anno, non ho posto sufficiente attenzione ad alcuni dettagli che potevano accendere in me un campanello d’allarme, inducendomi perlomeno a sospettare che quelle foto potevano essere frutto di una messa in scena.
Però poi alle foto hai messo anche delle didascalie…
Le didascalie mi sono state dettate dal fixer (mediatore) con cui mi trovavo. È lui che mi ha detto di scrivere determinate cose, anche se poi in seguito ha dichiarato che mi aveva avvertito di non scrivere quelle stesse cose.
La fotografia con una didascalia diversa avrebbe avuto meno valore?
Se la didascalia fosse stata diversa e se avessi saputo che l’azione era stata simulata, avrei potuto scrivere che si trattava di una scena a scopo dimostrativo, ma la fotografia avrebbe comunque avuto il suo valore.
Hai parlato di un mediatore… dalla stampa online si apprende che c’era un giornalista del luogo che ti ha introdotto negli ambienti dei sicarios. Che personaggio è il giornalista honduregno Orlin Castro? Conoscevi già alcuni suoi lavori?
L’ho conosciuto durante il mio primo viaggio a San Pedro Sula nel 2015 ed è lui che mi ha introdotto dentro il gruppo di malviventi. Poi grazie ai contatti da lui ricevuti mi sono guadagnato la fiducia dei sicari.

Orlin Castro ora ti accusa di avere pubblicato foto simulate, dichiarando di averti messo in guardia sul fatto che tali foto dovessero rimanere un documento solo a tuo uso personale. Vi è stato un malinteso fra voi due?
Macché, non c’è stato nessun malinteso! Lui non ha mai detto una frase del genere e soprattutto non mi ha mai detto che le situazioni erano inscenate o che non potevo pubblicare le foto. Oggi, purtroppo, mi trovo in una situazione dove la sua parola si scontra con la mia. Sono comunque in possesso di uno screenshot di una chat avuta con un suo collaboratore su Facebook, che testimonia a mio favore.
Alle accuse di altri fotoreporter, che dicono che Orlin Castro è uno dei personaggi raffigurati nelle foto da te scattate, cos’hai da dire?
Per quanto riguarda una delle situazioni da me fotografate, posso dire che quando i sicari mi hanno fatto entrare in un locale di una casa, io ho scattato in tutta fretta una serie di foto e poi mi hanno tirato subito fuori dalla stanza di forza. In quel contesto ero accompagnato da Orlin Castro, che mi aveva detto di rimanere fuori a controllare la situazione mentre io entravo. Evidentemente non è andata così, e nel tempo che io ero dentro con gli altri, può essere che lui sia entrato in quella stessa stanza da un’altra parte e abbia contribuito a inscenare la situazione, ma è solo un’ipotesi.
Il codice deontologico di un fotoreporter non ammette la pubblicazione di una fotografia simulata senza eventuali note che ne chiariscano contenuto e motivo. Cosa ti ha spinto a pubblicare queste fotografie dichiarandole come rappresentanti scene reali della malavita honduregna?
Le ho pubblicate perché io le ho vissute come reali.
In relazione alla tua attività di fotografo a San Pedro Sula sei mai stato interpellato dalla polizia locale come informatore o altro?
No, dalla polizia honduregna mai.
Quando hai rilasciato l’intervista alla giornalista dello Spiegel-Online, Ines Kaffka, eri già a conoscenza delle accuse di Castro?
No, perché la stesura dell’intervista è iniziata alla fine del 2018 e l’abbiamo terminata nel mese di marzo di quest’anno. È stata poi pubblicata solo a maggio.
Nell’intervista affermi che prima di avere usato l’obiettivo hai dovuto parlare per dieci giorni con i sicari. Ci puoi spiegare meglio com’è andata?
Innanzitutto c’era sempre qualcuno che mi accompagnava. Ma poi sono rimasto con il gruppo di sicari per molte ore, ho parlato e mangiato con loro. Sono entrato nelle loro case e, raccontando quello che avevo intenzione di fare, piano piano mi sono acquistato la fiducia per poter scattare le fotografie. Chiaramente non passavo ventiquattro ore al giorno con loro.
Divulgare coscientemente materiale fotografico falso come fosse verità mette in seria causa la tua credibilità di fotoreporter. Cosa vuoi dire in tua difesa?
Io ero convintissimo che le scene di quelle due o tre foto che mi vengono contestate fossero reali. In più posso aggiungere che il mio lavoro avrebbe comunque avuto un valore anche senza quelle immagini.
Nei tuoi viaggi da fotoreporter come accedi alle informazioni riguardanti le scene che fotografi?
Prendo degli appunti sui nomi delle persone e su cosa sta succedendo nella scena che vado a fotografare. Solitamente faccio anche firmare una liberatoria alle persone fotografate, anche se ovviamente nel caso specifico i sicari non hanno rilasciato alcuna liberatoria con nomi e cognomi o altri dati personali. Comunque in tutte le situazioni, oltre alla liberatoria, chiedo informazioni su quello che sta succedendo e mi prendo degli appunti sul luogo, sulla data, su ciò che sta succedendo e sulle persone coinvolte.
In futuro come pensi di tutelarti per quanto riguarda le informazioni che riceverai su quanto fotografato?
Sicuramente mi porterò una piccola action cam o una cosa simile, una gopro, che potrò mettere sopra la macchina fotografica, o su un braccio, o ovunque, in modo tale da registrare alcune scene dal vivo mentre le persone mi danno certe informazioni. Così si potranno rivedere i volti e riascoltare le parole “nero su bianco”.
A cura di Achille Pola