Vivere la montagna che cambia

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Non c’è nulla di immutabile nelle nostre montagne, invecchiano, come invecchiamo noi o, se preferite, crescono come cresciamo tutti noi, subendo l’effetto della forza di gravità. “Vivono” una vita che ha tempi non umani, “vivono” un’intensità che l’animo umano non può cogliere, “vivono” tragedie e creazioni che di tanto in tanto incrociano le vite degli umani. Ed è qui, in questo incontro di esistenze, che si materializzano le preoccupazioni di intere generazioni. Accade di rado che a una generazione sia dato vivere più di una catastrofe perché i tempi geologici non sono i tempi umani; però accade, oggi forse con maggior frequenza di qualche decennio fa.

Prevenzione e protezione sono gli strumenti, talvolta spuntati, per far fronte ai cambiamenti più imponenti. Progettazione e di tanto in tanto un briciolo di fatalismo aiutano a limitare i danni, ma la storia moderna delle nostre montagne è costellata di eventi catastrofici, destinati a cambiare l’ambiente in cui viviamo. In questi giorni, nella vicina Valfurva, la frana del Ruinon, sorvegliata speciale da anni, ha stravolto la vita delle comunità a monte e a valle del fronte franoso. Gli episodi del dissesto, nelle sue diverse manifestazioni, sono comuni a tutto il nostro arco alpino. In terra grischuna, per esempio, la notte del 19 marzo scorso, ci fu il crollo di oltre 250.000 metri cubi di roccia dal versante nord ovest del Flüela Wisshorn che generò una valanga, senza vittime. Si trattò di un’accoppiata dagli effetti importanti, in un periodo ancora freddo; un fenomeno niente affatto sconosciuto, visto che la latenza di risposta delle rocce alle alte temperature estive fa sì che gli effetti non siano immediati e si possano manifestare nei mesi più freddi.

L’Istituto per lo Studio della neve e delle valanghe (SLF www.slf.ch) registra tutti i crolli di medie e grandi dimensioni che si verificano nelle Alpi svizzere. Esclusa l’attuale, l’ultima estate particolarmente calda fu quella del 2015; in quel periodo la maggior parte dei crolli si verificò nell’area del permafrost al di sopra del 2500m. Oltre il 5% del suolo svizzero è permafrost (monitorato dalla rete di osservazione Permos) e rimane a temperature inferiori a 0°C, coperto da uno strato superficiale che si scongela solo in parte nei mesi più caldi. Sono proprio le temperature alte a livello del suolo ad essere più temibili: l’irradiazione solare, non più schermata dalla neve o dagli strati di ghiaccio, agisce direttamente su di esso, facilitandone lo scioglimento. La combinazione di temperature al suolo alte e abbondanti temporali rese i pendii vulnerabili; ci fu, per esempio, il crollo di 5000 metri cubi di roccia dal Piz Cambrena. Solo due anni fa, il 23 agosto, Bondo visse la tragedia del Pizzo Cengalo, quando tre milioni di metri cubi di roccia si riversarono a valle e otto persone persero la vita.

Accanto agli eventi franosi, si registra l’erosione costante della copertura dei ghiacci, con la progressiva riduzione dello spessore, acqua che alimenta i torrenti glaciali e trascina a valle imponenti quantità di limo glaciale; alle distese bianche di qualche decennio fa si sostituiscono paesaggi lunari. Quando la montagna si trasforma, le conseguenze non hanno confini e coinvolgono la vita di tutti noi. Indagarne le cause aiuta a mitigare gli effetti sulle persone e contribuisce a progettare soluzioni alternative, ma conoscenze e competenze tecnico – scientifiche, talvolta, si dimostrano insufficienti di fronte all’intensità della natura.


Chiara Maria Battistoni

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