A proposito di questa epidemia da Sars-Cov-2

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Nota della DirezioneIn qualità di giornale, Il Bernina ha deciso di adottare una linea chiara, intesa a pubblicare solo le informazioni ufficiali in tema di coronavirus; poiché in questa lettera aperta si cita un articolo pubblicato su questa testata, si vuole tuttavia concedere il diritto di replica.


Spettabile Redazione,

ho la netta impressione che qui in Valle l’inerzia e la confusione a
proposito di questa epidemia da Sars-Cov-2 sia stata molto grande e,
purtroppo, tale continui ad essere.

Tempo fa ho cercato di gettare lumi sull’uso delle mascherine, scrivendo
l’8 marzo una lettera aperta a “Il Bernina”. Ero infatti da qualche
settimana meravigliato per l’abulia delle autorità cantonali e federali.
Del resto, in questa crisi il Governo grigionese non hanno fatto altro
che da passivo ponte radio di Berna, inclusi i ritardi e i diversi gravi
errori inanellati in triste sequela. Non parliamo nemmeno della mancanza
di precauzioni in Valle.

In particolare, ho iniziato seriamente a preoccuparmi per le visite del
(bravo) personale Spitex che veniva a casa per accudire mia mamma di
quasi 99 anni: nessun uso di guanti o mascherine, niente distanziamento
sociale. Malgrado la suddetta lettera e alcune mie lamentele, queste
mancanze si sono protratte sino a quasi metà marzo. Stiamo parlando di
un periodo in cui l’allarme OMS era già stato lanciato da tempo e in cui
la Lombardia era stata proclamata zona rossa.

Purtroppo, le mie parole in quella missiva a Il Bernina sono risultate
premature, considerate persino foriere di psicosi, poiché in questa
Valle dormiente, ma anche in generale in Svizzera, ancora nessuno aveva
compreso la minaccia costituita dal particolare virus influenzale in
oggetto (pensando forse che Covid-19 fosse il solito pasticcio italiano?).

Mi si permetta la descrizione sommaria del mio caso personale, perché
credo sia indicativa delle carenze informative locali. Dopo tornerò
subito all’attualità.

Quando, dopo i primi sintomi, abbiamo in famiglia finalmente ottenuto la
possibilità di sottoporci a un test sono emersi, manco a dirlo, i
tamponi positivi. Infervorato, ho subito chiamato Spitex, lanciando
strali. Con quella telefonata le assistenti, anch’esse vittime, potevano
intanto essere meglio protette. La risposta è stata che il contagio non
veniva da Spitex e che il comportamento prescritto per le assistenti era
conforme alle direttive cantonali. Sappiamo che poco dopo il Centro
Sanitario Valposchiavo ha annunciato che v’erano “casi che sono
risultati positivi al virus, riguardanti fra l’altro anche collaboratori
Spitex di servizio sul territorio”. Per la cronaca, io ho in seguito
accusato una polmonite tipica da Covid e, avendo due stent, ho rischiato
non poco. Per il momento, a parte eventuali danni, mi è andata bene.

Quali erano dunque queste direttive cantonali di prevenzione di cui
parla Spitex? Beh, tagliamo corto. Si sarà ben compreso che erano del
tipo: “Raccomandiamo vivamente” di tenere tutte le scuole aperte (Jon
Domenic Parolini). Su queste posizioni le autorità hanno poi dovuto fare
un imbarazzante dietro-front, così come hanno finalmente dovuto
introdurre regole sanitarie più severe. Tra l’altro, i pareri del Signor
Daniel Koch (epidemiologo federale) sui bambini e sull’uso di mascherine
sono criticati e non trovano riscontro nella letteratura scientifica.
Non voglio però entrare negli aspetti tecnici.

Come dicevo, e torniamo al punto, appare evidente a ogni cittadino che i
ritardi, la confusione e la cattiva informazione in Svizzera abbiano
imperversato, questione di cui hanno riferito anche diversi media
stranieri. Purtroppo, peggio è andata nella nostra regione. Il risultato
è che oggi si contano in Valposchiavo 67 positivi storici, ben l’1.44%
dei residenti attuali, contro lo 0.32% della Svizzera tutta, lo 0.29%
dell’Italia e lo 0.41% della Spagna. Ovviamente, si tratta di dati
ufficiali incompleti in tutti i casi e confrontare una piccola regione
con una nazione non è il massimo per l’attendibilità statistica, ma il
divario resta impressionante.

Veniamo alle informazioni attuali. Come dicevo, ho l’impressione che non
si faccia altro che confondere la gente. Ho appena finito di leggere
l’intervento su Il Bernina di Serena Bonetti a proposito di una lettura
coerente dei dati statistici. Io credo che quanto esposto, la Signora
non me ne voglia, non corregga eventuali interpretazioni distorte della
gente e fomenti anzi ulteriore confusione. Mi permetto inoltre di dire
che nella sua eccessiva semplificazione la Signora trascura gli aspetti
più importanti e introduce alcuni errori. Ora mi spiego. Purtroppo, in
una lettera aperta non posso aiutarmi con grafici, ma penso che riuscirò
a chiarire passo per passo.

La Signora Bonetti spiega che la curva dei casi cumulati storici non
potrà mai scendere, ma che al più – quando nessun nuovo caso verrà alla
luce – si appiattirà sul totale storico raggiunto nel tempo, un
“plateau”. Questo è ovviamente giusto, dato che si tratta delle
successive registrazioni dei tamponi positivi riscontrati sul territorio
e mano mano aggiunte nelle statistiche. Tuttavia, quello che la Signora
sembra ritenere non adeguato, cioè che le persone vorrebbero vedere i
casi guariti sottratti a quelli totali registrati, è invece del tutto
ragionevole, purché ci siano le condizioni attendibili per farlo.

Se infatti noi sottraiamo i decessi e i guariti negativi dai casi totali
otteniamo i cosiddetti “casi attivi”, cioè il numero delle persone
(ufficialmente) positive nella popolazione. Per la Svizzera questo dato
esiste e il relativo andamento è visionabile in diversi siti; uno lo
indicherò tra poco. Tornerò su questo dato, perché è fondamentale
proprio per capire le statistiche che ci trasmettono le autorità, in
modo purtroppo non sempre trasparente.

Veniamo al discorso su questo benedetto “picco”. La Signora scrive che
il raggiungimento del picco riguarda il riscontro giornaliero dei nuovi
casi. Non è esattamente così. In verità, ci sono almeno due picchi di
cui rendere conto e ai quali si riferiscono gli epidemiologi. Se si
vogliono correttamente interpretare le statistiche occorre saperli
distinguere. Procediamo con calma.

Intanto, va precisato che l’andamento dei casi giornalieri non è una
curva morbida, né potrà mai avere la forma di una collina, come invece
scrive la Signora. Si tratta di una linea spezzata e oscillante. Solo
una sistemazione tecnica con particolari strumenti statistici
(stocastici) può trasformare questa spezzata in una linea con andamento
graduale. Diverse di queste modellizzazioni possono essere messe in
discussione e di solito sono usate solo a titolo di studio. Ebbene,
proprio per questo si preferisce avere il polso della situazione,
riferendosi alla curva dei casi storici cumulati. Risulta molto più
pratico anche in termini divulgativi. Infatti, sui grandi numeri
nazionali accumulati nel tempo le oscillazioni giornaliere non si
rimarcano in modo sensibile; più passa il tempo e meno traspaiono.

In epidemiologia la curva dei contagi cumulati è notoriamente
esponenziale. L’esponente è l’indice di contagio dell’agente infettivo.
Così, se ogni infetto contagia altre 3 persone l’esponente della curva
sarà proprio 3 (sto semplificando un po’). Questo vuol dire che la curva
stessa dei positivi diventa sempre più ripida al passare del tempo.
Quando la contagiosità diminuisce (ad esempio, grazie al lockdown) cala
anche la pendenza della curva. A un bel momento (di speranza) la
contagiosità può scendere sotto 1: ogni infetto contagia meno di
un’altra persona. L’esponente è allora minore dell’unità ed ecco cosa
succede: la curva continua a salire, ma presenta un punto di flesso,
cioè cambia concavità. Questo vuol dire che se prima cresceva sempre di
più ora cresce sempre di meno. Al passare dei giorni si appiattisce e
alla fine arriva al suddetto plateau. Ecco dunque perché la forma della
curva dei totali storici (e non le oscillazioni dei casi giornalieri) è
importantissima per farsi un’idea del fenomeno in corso.

Come dicevo, c’è un altro modo di considerare un picco epidemiologico.
Esso si rapporta al numero dei casi attivi dei quali ho riferito prima:
casi storici cumulati meno guariti meno decessi. Anche questa curva
rispecchia campioni corposi e quindi non evidenzia discontinuità marcate
ed è più facile da interpretare. I casi attivi nella popolazione possono
crescere, flettere, giungere a un massimo e poi, se Dio vuole (se non si
fa troppo pressing per la riapertura), calare gradualmente sino a zero.
Questo tipo di picco è importante per inquadrare la pressione sulla
sanità. Esso è altrettanto importante del primo approccio, ma ne
differisce in parte.

Bene, chiarito tutto questo, veniamo a un aspetto del tutto critico,
anzi preoccupante. Esso riguarda proprio la Svizzera. Se si vogliono
correttamente interpretare i numeri, come giustamente desidera la
Signora Bonetti, non va assolutamente messo da parte. Qui parliamo
proprio dei casi attivi che, come visto, dipendono dal numero dei guariti.

Il fatto è che in Svizzera i guariti sono semplicemente le persone che
dopo la malattia non accusano più sintomi. Si tratta cioè di “guariti
clinici”, non necessariamente di persone che si sono negativizzate. Fa
una differenza? Sì, ed enorme anche. Vediamo perché.

In Italia un paziente è guarito se dopo il periodo di quarantena di 14
giorni presenta tamponi negativi su due giorni successivi, altrimenti
vengono imposti giorni aggiuntivi d’isolamento. Ebbene, alcune indagini
su campioni in tal modo ottenuti hanno mostrato che un soggetto su due
risulta ancora positivo dopo la quarantena (per cui in Lombardia il
periodo è stato esteso a 28 giorni). In Svizzera la quarantena dura
pochissimo, 48 ore, e i tamponi vengono effettuati in genere solo in
ospedale e, a quanto pare, non sempre. I guariti sono sia le dimissioni
dagli ospedali, sia le molto più numerose persone che si ristabiliscono
a casa.

In altre parole, in Svizzera una buona porzione dei guariti ufficiali
sono un esercito di persone asintomatiche che vanno a spasso, ma che
sono ancora positive. La Signora Bonetti dice che guariranno. Si suppone
di sì (non è detto), ma intanto sono potenziali fonti di contagio, lo
sono tanto di più quanto più risultano freschi di quarantena.
Attualmente i guariti cumulati in Svizzera in tal modo computati sono
ben 16’400. Questo numero non andrebbe dunque indiscriminatamente
sottratto a quello dei positivi storici. Tuttavia, qualcuno lo fa,
confondendo le carte in tavola. Per esempio, lo fa questo sito (traendo
i dati dall’osservatorio della Johns Hopkins University):
https://coronavirus.ticyweb.ch/dettagli-diffusione-coronavirus/svizzera.php

Disporre di un dato sicuro sui guariti sarebbe molto utile per capire
quanti casi attivi ci sono in una popolazione. Siccome questa
indicazione in Svizzera non è attendibile, nulla possiamo dire di sicuro
sul relativo raggiungimento di un picco. Così, più che alle oscillazioni
dei nuovi positivi giornalieri, conviene guardare all’andamento
(pendenza) della curva dei casi storici cumulati. Come accennato,
particolare attenzione va attribuita al punto di flesso che sembra
collocarsi attorno al 3-4 aprile, momento in cui la contagiosità sembra
essere diminuita, grazie al perdurare delle regole comportamentali. Il
plateau non è invece stato raggiunto, come mostrano i grafici che si
possono trovare in rete. Prenderei in particolare:
https://www.corona-data.ch/

Tutto questo ci fa capire che parlare di picco superato è un po’ gettare
fumo negli occhi. Questo è quanto fa impressione sulla gente. Tuttavia,
molto più importanti sono gli andamenti dei decessi cumulati e del grado
di ospedalizzazione. Tra l’altro, questi dati non dipendono dai tamponi
effettuati che in tutte le nazioni portano sempre enormi incertezze con sé.

Metto ora in mostra una delle tante incertezze di questo tipo.

Dopo aver erroneamente focalizzato i test sui sintomatici, le autorità
si sono svegliate (più che altro quelle di alcuni cantoni) e hanno
optato per un “depistaggio”. Questo sta a significare che i tamponi
hanno iniziato a coprire la popolazione a più ampio spettro, in modo
“random”, al  fine di tracciare i contagi sul territorio e identificare
meglio i focolai (attraverso la storia dei contatti). Si capisce
tuttavia che in questo modo si finisce per pescare più facilmente tra
soggetti negativi. Questo abbassa il rateo di riscontro dei positivi e
può dare una falsa impressione di contagiosità diminuita. Anche questo
va detto se si vuole guardare dietro i numeri.

Per finire, non comprendo per quale motivo la Signora affermi che tutti
i casi positivi guariranno. Questo può essere un auspicio fondato per la
Valle, ma in nessun caso può intendersi come una deduzione generale che
si possa trarre dai numeri. Anzi, i numeri svizzeri non mostrano
purtroppo un sensibile calo dei decessi, ma solo delle ospedalizzazioni.
Siccome i decessi sono sfasati nel tempo, si può però sperare che
diminuiscano i nfuturo, vista la minore pressione sulla sanità. Questa è
l’unica inferenza sostanziale che si possa fare.

Fate attenzione quando vi parlano di picco.


Roberto Weitnauer

3 COMMENTI

  1. Cara Serena Bonetti,

    non vorrei essere frainteso. Forse il mio tono è apparso troppo diretto nei tuoi confronti. Il tuo laconico commento me lo fa pensare.

    L’oggetto del contendere era riferito all’interpretazione dei numeri che sciorinano in continuazione le autorità, qui e altrove, e che poi vengono dati in pasto alla popolazione senza spiegazioni. Si tratta dell’argomento che tu stessa hai inteso trattare in queste pagine.

    Siccome, come ho scritto, tanta è la confusione tra i cittadini a questo riguardo e siccome alcune tue considerazioni non risultavano a mio parere conformi a una corretta lettura dei numeri, ho voluto fare un’opera informativa e spiegare come stanno le cose. Se hai dubbi t’invio a controllare ovunque se quanto ho scritto, sia pure in forma semplificata, corrisponde al vero. Malgrado ogni possibile mancanza di tatto da parte mia, questo nulla ha a che vedere con la tua competenza professionale o la tua disposizione d’animo di medico al servizio della gente del posto. Ci mancherebbe altro.

    Ora, tu scrivi che gli studiosi stanno imparando a conoscere questo virus nuovo e che per tutti sono più i dubbi che le certezze. Sono d’accordo. Certo che è così. Sbagli però quando scrivi che per me è invece differente, ovvero che io ho delle certezze in proposito. Su che base trai questa conclusione? Proprio perché non sappiamo come il virus possa comportarsi, la contagiosità che le curve epidemiologiche rispecchiano va attentamente presa in esame, almeno da parte di chi ha tempo e voglia di chinare la testa sull’argomento.

    Vedi, non esistono solo incertezze legate al virus (che non conosciamo bene e che può mutare in minore o maggiore misura). Esistono anche incertezze che dipendono dal nostro comportamento e dalle restrizioni imposte dalle autorità. Gli ospedali sono demandati a curare la gente, ma la lotta alla diffusione dell’infezione si fa sul territorio. Ed è appunto qui che entrano in gioco le decisioni delle autorità.

    Le curve epidemiologiche sono proprio quanto offre il polso della situazione relativamente a questa lotta. Peccato che anch’esse si portino appresso ulteriori incertezze. Gli unici dati che hanno una certa consistenza, come ho scritto, sono infatti quelli dei decessi, dei casi gravi e del grado d’impegno nel tempo degli ospedali (occupazione letti e unità intensive). I dati sulla positività riscontrata tra i cittadini sono invece altamente inaffidabili. La loro attendibilità è fortemente condizionata dal modo in cui si fanno i test nella popolazione (che forse ora saranno sierologici).

    Quando sentiamo parlare di superamento del “picco” – ecco il famogerato oggetto del contendere – possiamo farci un’idea grossolana di cosa significhi questa nozione tecnica e confidare semplicemente che la situazione migliori, salvo eventuali ondate successive, più o meno controllabili (qui si apre uno scenario ancora diverso). Oppure, possiamo volere approfondire appena un po’ per vedere più chiaro nella faccenda. Magari, tanto per fare un esempio, per capire se mandare i figli a scuola oppure tenerli a casa.

    Se facciamo così non possiamo allora dimenticare che la curva dei “casi attivi” (vedi il mio testo) nella popolazione è quasi sempre sconosciuta. Questa curva, compreso il suo apice, è un modello astratto studiato nell’epidemiologia (ce ne sono peraltro diversi). Nella realtà le cose vanno diversamente. Ed è così per due ragioni principali: 1) la realtà è invariabilmente più complessa di ogni modello; 2) I dati disponibili sono inesorabilmente incompleti e distorti.

    Abbiamo solo i dati ufficiali, quelli che ci comunicano. Non sono un gran che, stante quanto acclarato. In alcune nazioni sono forse più rappresentativi, in altre lo sono certamente molto poco. Ma almeno cerchiamo di trattarli e interpretarli nel modo più conveniente possibile, capendo che dietro al concetto di “picco”, che è sulla bocca di molti media, si nasconde una condizione meno trasparente e semplice di quanto non sembri.

    Questo vuol dire che dietro le incognite aleggiano presagi di sventura? Non ho detto questo. La sanità svizzera è ben attrezzata in termini di capienza (il Ticino è stato comunque per giorni sull’orlo del collasso). Possiamo persino sospettare che il Consiglio Federale abbia giocato su questo. Infatti, un bel po’ meno la Svizzera si è dimostrata attrezzata in termini di controllo comportamentale. In ogni caso, io starei maledettamente attento a non sottovalutare i rischi della riapertura, perché “tanto abbiamo superato il picco”.

    La Svizzera è oggi purtroppo uno dei paesi con una delle più elevate densità di contagio del mondo, proprio per via degli errori reiterati commessi sul territorio, come quelli che conducono Spitex a portare il contagio nella casa dei cittadini (almeno, una RSA è chiusa, pur con tutti gli orrori che può manifestare in Italia e altrove) o come il lungo diniego sull’utilità delle mascherine tra i cittadini. Sarebbe questo il pragmatismo cui alludi? La nostra regione, del resto, non fa eccezione, anzi accusa un’incidenza di positivi ufficiali che è ben 5 volte la media nazionale.

    A lungo andare, ad esempio, i frontalieri corrono più rischi di contagio in Valle che non oltre confine. E molti lavorano proprio nella sanità. Non mi meraviglierei se la Valtellina si allarmasse e si lamentasse per questo, come del resto è già successo con la Valchiavenna. A questo ci si pensa quando si parla di aperture dopo il “superamento del picco”? Possiamo permetterci di essere ottimisti, la pressione sugli ospedali cala un po’ ovunque in Europa; ma non possiamo permetterci di abbassare la guardia, magari perché non sappiamo interpretare correttamente i dati.

  2. Non immagino nemmeno lontanamente di contraddire il Weitnauer, non sono assolutamente all’altezza (neanche se avessi capito tutto cio’che`che scrive). Lungi da me commentare la Sua situazione private e famigliare nel contesto del virus e di quanto sta vivendo attualmente, auguro ogni Bene. Ma, forse sbaglierò’, ho piena fiducia nelle nostre autorità politiche e sanitarie (e mi sento più’sicuro in questa Valle dormiente, di quanto lo sarei nella vicina Lombardia).

  3. Tutto il mondo sta affrontando per la prima volta COVID-19, e tutti, ricercatori e medici specialisti in primis, stanno imparando a conoscere questo virus e la sua malattia strada facendo. Per tutti sono più i dubbi che le certezze (questo non vale si direbbe per il signor Weitnauer).Le confuse – a detta sua- indicazioni cantonali e federali hanno avuto almeno il pregio di essere concrete e praticabili, non solo teoriche.
    Per parlare poi della nostra “valle dormiente” vorrei aggiungere che sia in Casa Anziani, sia in ospedale nel reparto lungodegenti non c’è stato fino ad oggi un solo caso di pazienti contagiati! Questo la dice lunga sulla qualità delle cure e la serietà delle misure preventive intraprese.
    Per concludere, 30 anni di medicina vicina alla gente mi hanno insegnato a dire in modo semplice e comprensibile le storie più difficili, mi hanno insegnato la concretezza e soprattutto la gratitudine.
    Serena Bonetti