Libertà? Melem encanta, pantalele

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2017

Con il nuovo anno riproponiamo, su iniziativa del presidente de “Il Bernina” Bruno Raselli, una serie di editoriali scritti da persone vicine al nostro giornale. Il tema trattato riguarda la Libertà, declinato in diversi ambiti della nostra vita.
Questo fondamentale stato di autonomia esistenziale, in questi ultimi due anni, è stato messo alla prova. In che modo? Come è cambiata la nostra vita a livello personale e famigliare, ma anche sociale? 

Augurandovi buon Natale, iniziamo con il racconto di Serena Bonetti.

Si alzò dal tavolo frastornato.

Il chitarrista aveva finito da un po’ il suo concerto, e ora se ne stava seduto sorridente e un po’ assente a bersi una birra, sembrava esausto, svuotato, e non pareva sentire il vociare confuso, rumoroso che regnava dentro la sala. Oddio, sala, a dire il vero era un pezzetto di piazza raccolto sotto un tendone. Ce n’erano tanti di tendoni simili in città quel fine settimana: la festa della birra si ripeteva ogni anno, e i bar, i pub della zona non bastavano più a raccogliere tutta quella gente che veniva anche da lontano, così ci si era affidati alle tende. Che poi non stonavano neppure, anzi, contribuivano  a raccontar la festa. In fondo, più che della birra, era ormai diventata una festa della musica, soprattutto del jazz. Ad ogni angolo di strada l’eco di una band o anche un solo strumento ti indicava  il percorso o ti invitava ad entrare in un locale.

Non che Paolo fosse un gran conoscitore di jazz, ma gli piaceva soprattutto quella specie di tacita intesa e complicità che sempre ritrovava tra i suonatori di un gruppo, pareva quasi che fossero impegnati in una loro conversazione privata, dove ognuno ascoltava e rispettava l’altro e poi rispondeva. Ad ogni modo, l’ambiente  che si respirava in città in quei due giorni di festa lo contagiava, lo faceva sentire un po’ meno solo, non era necessario essere in compagnia per divertirsi o osare entrare in un locale, non si sentiva osservato, ma piuttosto, per una volta, integrato e parte di quella comunità.

Quella domenica sera era già stato in cinque locali, non aveva bevuto molto ma camminava ugualmente stranamente molleggiato, come se i ritmi del New Orleans appena ascoltati, l’avessero un poco posseduto. Stava rientrando poiché il mattino dopo la sveglia sarebbe suonata molto presto, ma qualcosa in quel tendone lo attirò: forse la luce calda che ne filtrava o forse solo la curiosità di scoprire l’effetto che faceva la fontana della piazza dentro la pancia del tendone. Fatto sta che entrò a bersi un’ultima birra.

Sopra un palco improvvisato e costruito attorno  alla fontana, si stava sistemando un chitarrista. Non lo accompagnava nessun altro strumento e nessun altro suonatore. Incuriosito Paolo si fermò ad ascoltare ancora quell’esibizione.

Senza alcun preavviso, come se semplicemente si intromettesse nella baldoria generale, quello iniziò a suonare. Ammesso che quella strana roba significasse suonare! Una scarica di suoni strozzati e gutturali uscì dallo strumento e scheggiò l’aria. Tutti zittirono come se ubbidissero ad un misterioso segnale e per quarantasette minuti una moltitudine di occhi non smisero di fissare in silenzio quello strano abbraccio uomo-strumento. Quell’uomo teneva infatti la chitarra in maniera davvero singolare, praticamente l’avvolgeva, la copriva, ne prendeva possesso trasformandola in corpo vivo, quasi una protuberanza umana, un pezzo del suo stesso corpo.

Impressionante a vedersi. Anche a sentirsi.

Dopo i primi minuti di sorpresa, Paolo sembrò sintonizzarsi su quegli strani suoni. L’uomo pizzicava con gran virtuosismo le corde della chitarra soffocandone però simultaneamente la vibrazione, trattenendo l’onda del suono a pochi centimetri dalla corda, rispedendola dentro la cassa armonica come un rigurgito. Ciò che da quell’amplesso ripartiva, diffondendosi nel locale, era difficilmente descrivibile, ma aveva qualcosa di ipnotizzante. Paolo non aveva mai sentito niente di simile: era impossibile riconoscere una qualsiasi linea melodica eppure quelle note strozzate e arrabbiate qualcosa stavano dicendo. Raccontavano un’urgenza, un mondo interiore, un intero discorso, un maestoso concerto che quell’uomo aveva dentro e che sputava così! Ma certo che era musica quella, tutt’a un tratto la sentì anche Paolo e provò ad immaginare l’incredibile concerto che doveva riempire quell’uomo intanto che lo trasformava, lo comprimeva, lo traduceva e lo violentava su quelle sei corde. Quando smise di suonare per un attimo nessuno fiatò finché l’uomo tornò uomo e la chitarra chitarra, allora giunse l’applauso.

I rumori di bicchieri, di voci, di sedie ripresero e il chitarrista (a Paolo pareva pallidissimo) si sedette ad un tavolo a bersi una birra. Paolo restò a fissarlo per parecchio tempo, non riusciva a togliergli gli occhi di dosso, continuava a sentire quella musica e non riusciva a muoversi. Finalmente, frastornato e come in trance, si alzò dal tavolo  e uscì.

Non aveva più premura di rientrare, non ne vedeva più la ragione. La sveglia, il lavoro del giorno dopo gli sembravano poca cosa ormai. Qualcosa dentro quel tendone lo aveva raggiunto lasciando un segno profondo. Non aveva nessuna voglia di abbandonare quella strana sensazione che lo attraversava, non voleva soffocarla rientrando a casa. Per dirla tutta non riusciva neppure a pensare, ogni pensiero sembrava allontanare e sfumare quell’emozione. Continuò quindi semplicemente a camminare senza una meta, pieno soltanto di quello strano concerto.

Ad un certo punto però la stanchezza ebbe il sopravvento, non era neppure abituato a lunghe marce e tutt’a un tratto si accorse di avere male e freddo ai piedi. Un leggero brivido sembrò restituirgli il corpo: sentì le gambe stanche, avvertì il desiderio di un letto, ritrovò un briciolo di lucidità e finalmente rientrò a casa. Si buttò sul letto vestito e sprofondò in un sonno profondo.

Non sentì la sveglia che suonò dopo poco, e non sentì neppure il telefono qualche ora più tardi. In ufficio, non vedendolo arrivare, si erano preoccupati e avevano provato a chiamarlo. Non sentì nulla, o meglio, forse qualcosa avvertì, ma lo assimilò al sogno che  stava facendo, senza averne memoria al risveglio. A mezzogiorno, un crampo al polpaccio sinistro gli interruppe il sonno. Impiegò un attimo a capire che giorno fosse e perché si trovasse a letto vestito. Massaggiandosi il polpaccio guardò l’ora e, senza rimorso alcuno, si accorse di non essere andato al lavoro. Si sentì stranamente felice, o qualcosa del genere, in quindici anni non era mai mancato un solo giorno dal lavoro, voglio dire mai, neppure un piccolo ritardo. E se ne faceva un vanto.  Eppure quel mattino non andare in ufficio era stato così facile, chi l’avrebbe detto? Preso da una strana euforia si infilò sotto la doccia. Gli venne da pensare una cosa ridicola : come apparirebbe la sua vita se la traducesse nei suoni prodotti dal chitarrista della notte? e quasi per gioco cominciò ad immaginare di stravolgere le parole, le frasi, le regole sintattiche, grammaticali del buoncostume, dell’apparenza. Era sempre stato una persona un po’ chiusa, di poche parole, ma molto disponibile. Non sopportava i chiacchieroni, quelli che sempre dovevano fare un commento, quelli che per raccontare l’ingorgo stradale sulla via dell’ufficio il mattino partivano dicendo cosa avevano mangiato a colazione. Trovava tutto quel parlare estremamente noioso.

Quel mattino sotto la doccia provò ad immaginarsi un nuovo modo di esprimersi, non tanto un’altra lingua, ma un parlare ridotto all’osso, solo l’essenziale: per esempio, come avrebbe giustificato quell’assenza dal lavoro al suo capo? Musicando un sol ho scelto il sole. Poco gli importava quello che avrebbero capito, mica si era spiegato prima del concerto quel chitarrista! La cosa lo divertì a tal punto che si scoprì a ridere davanti allo specchio. Non si sarebbe neppure fatto la barba, non ne aveva nessuna voglia (proprio lui che si sbarbava anche con quaranta di febbre!). Si vestì senza nessuna cura e uscì di casa in pantofole. Non per distrazione, ma perché i piedi ancora gli dolevano per la lunga camminata della notte.  Per strada non si accorse degli sguardi curiosi dei passanti, marciava allegro canticchiando una specie di ritmo senza melodia. Giunto in ufficio non salutò nessuno, e, senza smettere di canticchiare, si diresse alla sua scrivania: la fissò un attimo, più che altro, a dire il vero, si incantò a fissare un raggio di luce che filtrava dalle tapparelle, e il pulviscolo argentato che sembrava dargli volume. Diede acqua ad una misera piantina sul davanzale della finestra e, dopo un ultimo sguardo al locale, senza fretta , richiuse piano la porta e uscì, facendolo per sempre.

Il giorno seguente si comperò un dizionario tascabile, il più piccolo che trovò. Col tempo cambiò pure casa, o meglio, perse la casa e si ritrovò a vivere in strada tra altri straccioni e altre storie. Quelli del quartiere si abituarono presto alla sua presenza, lo chiamavano “il professore” : in mano teneva sempre un dizionario tascabile e aveva il vizio di raccogliere giornali vecchi e sottolineare parole qua e là apparentemente senza nessun legame. Parlava in maniera incomprensibile, a volte sembrava un’altra lingua, frasi corte, suoni strani che sempre mettevano a disagio l’interlocutore. Solo l’uomo del chiosco all’angolo del parco pareva capirlo ed  ogni mattina si scambiavano qualche battuta.

Il fatto è che “il professore”, malgrado quell’aria estraniata, era attentissimo a quanto capitava  lì attorno, soprattutto ai suoni e ai rumori, agli odori. E spostandosi in quel sottobosco di non-detto cercava parole, parole nuove, parole libere, parole intonate, grandi abbastanza per raccontare emozioni. E quando il dizionario tascabile gli sembrò troppo limitato trovò un trucco per ampliarlo: cominciò a rovesciare le parole, a leggerle al contrario, a combinarle secondo il ritmo dettato dall’urgenza del momento.  Con i giornali vecchi il gioco poi si allargò: guardava la gente, sceglieva il suo personaggio e poi lo associava ad una parola dentro i titoli dei giornali, e se per caso il giornale era in lingua straniera il gioco era ancora più divertente.

Ma un giorno le parole finirono, o meglio finirono di dargli emozione, dentro le pagine dei giornali “il professore” sottolineava ed inquadrava solo gli spazi bianchi.

Lo trovarono così, una mattina di dicembre, steso su una panchina del parco, freddo e col cuore fermo, il dizionario in tasca come una carta d’identità. Tra le pagine sgualcite scoprirono un pezzo di carta: era parte di una locandina che annunciava un concerto di chitarra, si leggeva solo fr  azz, la carta era consumata, doveva forse trattarsi di free jazz, una data rimandava a quindici anni prima.

Quel mattino l’uomo del chiosco sentì solo più forte il profumo del calicanto che fioriva lì all’angolo: melem encanta, pantalele gli venne da pensare e fu il suo ultimo saluto al professore.

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