Dove si trova il regno di Dio?

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Matteo 4,23-25
Sermone del 13 febbraio 2022

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Gesù percorreva tutta la regione della Galilea: insegnava nelle sinagoghe, annunziava il regno di Dio e guariva tutte le malattie e le infermità della gente. Grandi folle lo seguivano: venivano dalla Galilea, dalla regione delle Dieci Città, da Gerusalemme, dalla Giudea e dai territori al di là del fiume Giordano. (Matteo 4,23-25)

Di che cosa parlava Gesù quando si rivolgeva alla gente che incontrava e che lo seguiva? Parlava soprattutto del regno, annunciava il regno. E quali erano le caratteristiche del regno di cui Gesù parlava? Eccone alcune.

Si tratta di una realtà sociale, visibile, tangibile, qui e ora, nel tempo, materiale e concreta. I suoi segni sono a portata di mano: i poveri sono aiutati, ai ciechi è ridata la vista, alle vedove viene fatta giustizia, i lebbrosi sono guariti.

Non è un regno fatto di intenzioni, né di sole speranze, né di sole aspirazioni. Non è qualcosa di interiore, legato soltanto alla coscienza. Nel regno sono tutti fratelli e sorelle, e non solo per modo di dire, ma a partire da un comune impegno: dare da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire chi non ha vestiti, alloggiare i senzatetto, e così via.

È questo impegno l’unico criterio di valutazione per la venuta del regno: nella scena del giudizio finale, raccontata da Matteo al capitolo 25, si parla di azioni concrete, esteriori, sociali, non religiose ma profane.

È vero che in molti testi il regno è detto “di Dio” o “dei cieli”, ma questa qualifica indica la positività del regno e il suo valore supremo.

Ciò che Gesù intende trasmettere, parlando del regno, è qualcosa di molto concreto: si tratta di creare un mondo nuovo, nuovi rapporti sociali, una qualità diversa nei rapporti interpersonali. Si tratta di dare senso alla vita, al lavoro, all’azione, alla società, alla morte. Non si tratta – come spesso è il caso nel discorso religioso – di rinviare all’intimo delle coscienze, né di rinviare a un domani in cui le cose andranno meglio, e nemmeno di tornare a un’età dell’oro del passato. Ci è dato l’oggi per operare, e operare significa dare ai rapporti umani un senso che non sia quello – comunissimo, che conosciamo molto bene -, della sopraffazione, dell’ingiustizia, dell’egoismo. Il regno è già qui, in Gesù che passa per le strade facendo il bene, che pranza con i pubblicani e con le prostitute, che muore – e non è un caso – abbandonato da tutti.

Ma se il regno annunciato da Gesù è concreto, visibile, sociale e terreno, come mai noi, oggi, non lo vediamo? Come mai questi venti secoli di regno sembrano passati invano? Come mai le ingiustizie e le oppressioni trionfano ancora? Ogni persona che intenda mantenere come proprio riferimento il Gesù dei vangeli, non può fare a meno di porsi queste domande. Le risposte a questi interrogativi sono state molte.

La più comune – e forse la più adottata dalle chiese – rinvia il regno al futuro e all’interiorità delle coscienze: così però si contraddicono elementi evidenti dei vangeli e si ricade nell’alienazione religiosa più scontata, quella che fa della religione – e quindi anche del cristianesimo – uno strumento al servizio dello statu quo.

Alcuni hanno provato a dire che il regno c’è già, ed è la chiesa: ma chi se la sente, in tutta onestà, di dire che le chiese sono oasi felici di fraternità e di amore? Non lo si può dire delle grandi chiese – impelagate in terribili scandali -, né di quelle piccole comunità che corrono il pericolo di ghettizzarsi.

C’è anche chi ha provato a dire che tutta la società, in questi venti secoli, si è fatta migliore. Dimenticando però gli stermini nei campi di concentramento, le bombe atomiche, e le tragedie che si consumano ancora: da quella degli uiguri in Cina, a quella delle donne in Afghanistan, a quelle dei migranti nel Mediterraneo, solo per citarne alcune.

Forse ci si può accontentare di rilevare la presenza del regno nei piccoli segni che ci è dato di percepire: momenti felici di fraternità e di amore in un mondo cinico e violento. Ma questi sono segni piccoli e rari, che inoltre rinviano al domani: Gesù non ha inaugurato un mondo di piccoli segni, bensì di fatti reali e concreti, nel presente.

Spesso si sente una risposta interessante, secondo la quale il regno sarebbe qui – ma non tutto qui -, e ora – ma non ancora. Evidentemente è una risposta che cerca di salvare il salvabile, e così facendo finisce però per dover rinviare un po’ troppo al ” non ancora”.

Le domande dunque rimangono, e interrogano tutti i cristiani e le cristiane che vogliono rimanere fedeli al cammino indicato da Gesù, in mezzo alle vicende della storia.

A chi gli poneva domande su questioni teoricamente insolubili, Gesù rispondeva spostando la questione dal piano teorico a quello pratico. Non sceglieva una delle alternative possibili, e non cercava a tutti i costi una mediazione che tenesse conto del meglio delle varie risposte possibili, come siamo invece soliti fare noi. Gesù rispondeva spingendo all’azione: “Vai e fai”. A chi gli chiedeva: “Chi è il mio prossimo?”, Gesù raccontò la parabola del buon samaritano, concludendola con un “Vai e fai”. Come dire: “Non perdere tempo con domande oziose e questioni inutili”.

Se ci riferiamo alla tradizione giudaico-cristiana, tra le cose da “andare e fare” c’è sempre anche la lotta agli idoli. Nei vangeli, se non è chiaro il discorso su Dio, è chiarissimo quello contro gli idoli – che emerge fin dalle prime pagine della Bibbia. Se è inutile disquisire su Dio, non è inutile combattere i baal – gli dèi, gli idoli – di tutti i tempi e di tutte le latitudini: individuarli, prima di tutto, e poi combatterli. Individuarli significa smascherarli, negare la loro intoccabilità, la sacralità di cui tutti i poteri si sono sempre rivestiti e si rivestono, fino a oggi.

Attenzione però, perché a volte la differenza tra baal e Dio è minima: non dimentichiamo che i maghi del faraone facevano più o meno tutti quei prodigi che faceva il Dio di Mosè. Come dire, la concorrenza è spietata!

A noi non spetta delineare il profilo del vero Dio, il suo identikit: non siamo in grado di farlo. Dio ci sfugge, come ci sfugge anche la comprensione ultima del regno. A noi spetta invece di individuare i poteri, gli idoli, i baal che si presentano di volta in volta come Dio, che vogliono essere adorati e che finiscono per imprigionarci e opprimerci. Il discorso biblico su Dio è fondamentalmente un discorso, molto attuale, contro gli idoli.

Pastore Paolo Tognina