Matteo 1,18-25
Sermone del 10 dicembre 2023
La nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe e, prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo. Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla a infamia, si propose di lasciarla segretamente. Ma, mentre aveva queste cose nell’animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria tua moglie, perché ciò che in lei è generato è dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”. Tutto ciò avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele”, che, interpretato, vuol dire: “Dio con noi”. E Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come l’angelo del Signore gli aveva comandato; prese con sé sua moglie e non ebbe con lei rapporti coniugali finché ella non ebbe partorito un figlio, al quale pose nome Gesù. (Matteo 1,18-25)
Si avvicina il Natale, e allora riprendiamo i testi biblici che parlano della nascita di Gesù. A dire il vero, il Nuovo Testamento non parla molto di quella nascita. L’apostolo Paolo non ne sa nulla, i vangeli di Marco e Giovanni la ignorano e cominciano a parlare di Gesù quando egli è già adulto. Ne riferiscono, senza dilungarsi troppo e con accenti diversi, solo gli evangelisti Matteo e Luca.
Il racconto della nascita di Gesù riportato da Matteo, di cui ci occupiamo oggi, si distingue per lo spazio dedicato alla figura di Giuseppe. Come sapete, quella di Giuseppe è una figura che compare solo brevemente, e poi sparisce. Giusto il tempo di venire a sapere che è il marito di Maria, poi più nulla. Non si sa che fine abbia fatto. Di lui, Matteo dice che è un uomo che sogna, e che attraverso i sogni riceve indicazioni sulle decisioni da prendere. Detto in altre parole, quando si trova di fronte a scelte difficili, Giuseppe «ci dorme sopra». E dopo averci dormito sopra, si sveglia con le idee più chiare. Nel sonno, Giuseppe sogna. E sognando riaffiora in lui la parola del profeta, secondo il quale il bambino che sta per nascere sarà chiamato «Emmanuele», cioè «Dio con noi».
Quel nome, Emmanuele, contiene una promessa, e la promessa è che «Dio è con noi». Si tratta di una promessa straordinaria, che risuona qui e che attraversa tutta la Bibbia. Si potrebbe dire che essa riassume in sé l’intero messaggio biblico e indica l’orizzonte verso cui ci muoviamo, ovvero il giorno in cui, come dice l’apostolo Paolo, Dio sarà «tutto in tutti» (1 Corinzi 15,28).
Dio con noi: non più «contro di noi», come al tempo del diluvio, non più «senza di noi», come al tempo delle ripetute infedeltà del suo popolo, a cominciare dalla rivolta del Vitello d’Oro. E non soltanto «per noi»: il suo amore non è una disposizione benevola ma distaccata, bensì partecipazione reale e personale alla nostra condizione. Dio con noi vuol dire presenza, comunione, solidarietà di Dio con l’umanità.
Questa promessa, bellissima, che ci riempie di gioia, può tuttavia essere fraintesa. Ed è stata fraintesa. Si può infatti pensare che «con noi» significhi «con qualcuno di noi» e non «con tutti noi». Quante volte, nel corso della storia e fino a oggi, Dio è stato presentato e vissuto come un Dio di parte? Il Dio dei bianchi e non delle persone di colore, il Dio dei padroni e non dei servi, il Dio degli uomini e non delle donne, il Dio degli eterosessuali e non delle persone omosessuali. E così via.
Si può anche abusare di quella promessa. «Dio con noi» può essere trasformato in «Dio è il complice delle nostre imprese». È successo molte volte, e succede ancora oggi, in tutte le «guerre sante» proclamate nel corso della storia: dalle crociate, all’inquisizione, dal «Gott mit uns» sulle cinture dei soldati tedeschi, alle benedizioni impartite dal patriarca di Mosca alle truppe russe che invadono l’Ucraina, agli attentatori suicidi, ai fanatici di ogni credo. A tutti quelli che erano convinti che Dio fosse con loro, occorre ricordare che Dio non era con loro, bensì con le loro vittime. Lo spirito di crociata, di qualunque genere e per qualunque obiettivo, è la negazione dello spirito della croce. Dio è il Signore, non il complice. Tutti vorrebbero avere Dio dalla loro parte, ma Dio non si lascia accaparrare da nessuno. Perché Dio è con noi alle sue condizioni, non alle nostre. «Dio con noi» è il nome di Gesù Cristo. E solo a motivo e nel nome di Gesù possiamo dire «Dio con noi».
Eppure molti, anche oggi, pensano «Dio è con noi», senza tenere conto di Gesù, senza considerare cioè la realtà nell’ottica di Gesù. Detto in altre parole, pensano che Dio sia con loro quando si sentono forti, e dunque considerano la loro forza come un segno che Dio è con loro. Oppure ritengono che Dio sia con loro quando si sentono giusti, un po’ come facevano i farisei al tempo di Gesù, i quali poi non capivano perché egli stesse con i peccatori anziché con loro. Oppure pensano che Dio sia con loro quando sono fortunati, e allora pensano che quello sia un segno in base al quale dedurre che Dio sia con loro. Ma Dio è con noi solo a motivo e per mezzo di Gesù. Perciò, prima di dire «Dio con noi», dobbiamo chiederci se Gesù è presente nella nostra vita, se noi stiamo seguendo le tracce di Gesù.
Pronunciando la promessa di volere essere con noi, Dio ha messo in pericolo se stesso e ha lanciato una grande sfida a noi. Si è messo in pericolo perché stare con l’umanità è rischioso, anche per lui: la croce di Gesù, il rifiuto opposto al suo messaggio, la volontà di respingere la mano di Dio tesa verso di noi, ce lo ricorda in modo eloquente. Ricorderete le parole di Gesù, pronunciate piangendo, mentre guardava Gerusalemme: «Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali» (Matteo 27,37). Ma anche per l’essere umano è rischioso stare con Dio: non può rimanere lo stesso, cambia, deve diventare diverso. Come dice l’apostolo Paolo, che dopo avere incontrato Gesù, confessa: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Galati 2,20).
Abbiamo già detto molto, ma occorre ancora aggiungere un ultimo tassello. Forse il più importante, riflettendo sul «Dio con noi». L’essere di Dio con noi non è come il nostro essere gli uni con gli altri, così precario e mutevole. Ogni giorno sperimentiamo com’è fragile la comunione fra gli esseri umani che spesso si incrina, si rompe. Ieri eravamo insieme, ora non lo siamo più eravamo uniti, e ora siamo divisi. Amicizie che sembravano durature si perdono negli anni, incontri che parevano definitivi si dissolvono e sono dimenticati, persone che sono state con noi non lo sono più, né noi con loro. Lo stesso avviene anche nei rapporti tra popoli e nazioni: ieri alleati, oggi avversari, ieri nemici, oggi amici, e domani chissà.
Non è così l’essere di Dio con noi. «Dio con noi» non è un incontro fugace. È un patto che, parafrasando l’apostolo Paolo, né vita, né morte, né uomini, né angeli, né la storia attuale, né quella futura potranno mai infrangere. Un amore duraturo, una comunione definitiva, tra Dio e l’umanità. «Dio con noi», per sempre.
Pastore Paolo Tognina