Ci sono periodi assai lunghi in cui le montagne, che pure riesco a scorgere dalle finestre di casa nelle giornate più terse, restano un lontano e sfocato miraggio, una meta ambita, ma troppo lontana nel tempo e nell’orizzonte per accompagnarmi nelle giornate di lavoro. E’ proprio in questi momenti che metto in atto una strategia per me infallibile: cerco un libro che racconti di alpinismo e mi tuffo nella lettura.
Non c’è video o foto che mi restituisca le emozioni evocate dalla lettura; il lento dischiudersi delle parole che diventano pensieri detta il ritmo del mio cuore, fa riemergere ricordi e sensazioni vissute nelle tante estati di alpinismo trascorse tra le vette e i rifugi del gruppo del Bernina e dell’Ortles Cevedale. Dopo qualche pagina, mi sento già in quota anche se il libro racconta spesso di montagne che (ancora) non conosco; è a questo punto che la pianura mi pare più accogliente, luogo per sognare ascensioni e ritemprare lo spirito, pur nel turbinio delle attività che le grandi città del Nord, quasi senza soluzione di continuità, offrono ventiquattro ore su ventiquattro.
L’alpinismo, dalle alte alle medie quote, è da sempre catalogato attività a rischio; io l’ho sempre considerato una formidabile scuola di vita, capace di insegnare con efficacia la valutazione dei rischi e dei propri limiti, la conoscenza dell’ambiente e delle attrezzature. Per molti anni del Novecento, l’alpinismo fu uno dei pochi strumenti disponibili per costruire una vita nuova e assaporare il valore della libertà; Monza, per esempio, pur essendo a una quarantina di chilometri dalle prime vette delle Prealpi, è stata per tutto il Novecento una vera e propria “città di montagna”; il treno per Lecco ha portato in Grigna gli alpinisti più forti dell’epoca, come Andrea Oggioni e tanti, tanti altri. In città ci sono ancor oggi una decina di associazioni alpinistiche: hanno cambiato pelle, ma conservano i gloriosi nomi di un tempo: Pell&Oss, Sam, Gem, Cai; qualcuna di loro ha superato i cent’anni di vita. Insomma, l’alpinismo del Novecento ha lasciato un’eredità culturale e sportiva ancor oggi viva nel tessuto sociale.
Sta di fatto che l’alpinismo è stato ed è attività a rischio, normato da leggi che nei diversi Paesi regolano l’accesso dei professionisti. La Confederazione dal 2014 ha l’Ordinanza sulle attività a rischio, applicata alle attività all’aperto in montagna e nelle zone di torrenti e fiumi; lo scorso 28 marzo però, il Consiglio federale ne ha avviato la revisione integrale: in quattro anni il ventaglio delle attività è cambiato, si è ampliato anche al di fuori del contesto montano ed è ora di aggiornare criteri di sicurezza e requisiti di professionalità per gli operatori. Tra le novità più evidenti c’è l’intenzione di modificare la definizione di attività svolta a titolo professionale; si vuole abrogare l’attuale tetto di 2300 franchi all’anno, facendo sì che, qualunque sia il fatturato generato, sia comunque necessaria un’autorizzazione cantonale per operare, a garanzia dunque dei partecipanti. Il Consiglio federale, inoltre, vuole introdurre nuove regole di certificazione delle misure di sicurezza dell’offerta, soggette oggi a specifiche norme ISO; propone di definire nuovi requisiti per gli operatori, con formazioni supplementari destinate ad ampliarne il campo di attività; tra le figure coinvolte ci sono gli istruttori di arrampicata, gli accompagnatori di escursionismo e gli operatori di attività in acque vive.
Si tratta di una proposta di revisione interessante, che legge il cambiamento e coglie le tendenze del prossimo futuro a partire dalle evidenze degli ultimi anni; d’altro canto la Svizzera è paese di camminatori, popoli che amano e praticano con entusiasmo la montagna, come dimostrano bene i dati dell’Ufficio federale dello Sport che segnalano walking e trekking saldamente in testa (e in crescita) alla classifica degli sport preferiti.
Chiara Maria Battistoni