Ci sono luoghi a cui ci si affeziona e che si vorrebbe non veder cambiare; ci sono luoghi che hanno fatto la storia dei nostri Paesi e si vorrebbe che tali rimanessero nel tempo, testimonianza silenziosa di ciò che fu. Ci sono altresì luoghi in cui storia, tradizione, valori, identità si incontrano da secoli, affascinando le generazioni. Nella mia personale classifica delle evocazioni paesaggistico – culturali, metto ai primi posti il gruppo del Bernina e il massiccio dello Jungfrau, tra i quattromila europei più famosi, capaci di attirare alpinisti e turisti da tutto il mondo. Una quindicina di anni fa, quando andai per la prima volta a Grindenwald, dopo aver letto molto sulla Nordwald dell’Eiger, incappai in una giornata di pioggia e fui costretta a rimandare il mio incontro con il mito alpinistico del Novecento. Ebbi più fortuna un anno dopo, non mi lasciai sfuggire l’opportunità di salire a Top of Europe, per godermi poi la camminata verso la Monch Hutte; mentre camminavo riflettevo sulla straordinaria opportunità, per nulla scontata altrove, di salire in quota in poco meno di due ore senza sforzo e camminare nel silenzio, su una pista ben tracciata e segnalata sul ghiacciaio.
Ricordo l’entusiasmo di ritrovarmi oltre quota 3500m in treno, quota che nel gruppo Ortles Cevedale rappresenta già il tetto massimo di molte cime e non dimentico la chiacchierata con la guida di Grindenwald reduce da un’ascensione alla Jungfrau. All’epoca le ferrovie avevano ancora in forza molti convogli di antica concezione: probabilmente c’erano meno posti disponibili e le esigenze di imbarco e sbarco erano diverse da quelle attuali. Forse Top of Europe, gettonatissima meta per turisti da tutto il mondo, era un po’meno affollata; lassù si respirava ancora tutta la sacralità dell’alta montagna, pur godendo di una struttura all’avanguardia. Rientrai entusiasta, soddisfatta del mio “incontro” con l’Eiger, comune a migliaia e migliaia di persone ma pur sempre unico, almeno ai miei occhi di romantica alpinista.
Complice qualche giorno di bel tempo stabile, quest’anno ho colto l’occasione per una nuova visita. In inverno avevo letto ben due classici sull’Eiger, avevo voglia di tornare nella “pancia dell’Orco” fresca dei dettagli storico- alpinistici rinverditi con le letture; e poi desideravo ritrovare un po’ di quella fatica davvero speciale che l’alta quota regala al fisico. Il viaggio si è presto rivelato una scoperta: parcheggi sempre più efficienti e attrezzati ma anche sempre più affollati da bus turistici; convogli di ultima generazione, confortevoli e veloci e a Kleine Scheidegg un sistema di varchi per l’imbarco verso Top of Europe degno di un aeroporto. Un viaggio da incorniciare, per efficienza e puntualità. Altrettanto dicasi una volta in quota: l’annullo del Passaporto (turistico) consegnato in stazione, la segnaletica precisa e multilingue che guida verso le attrazioni, ristoranti compresi: nulla è lasciato al caso. Eppure, una volta guadagnata l’aria aperta, al termine dell’affollato tunnel che porta verso il ghiacciaio, sono trasecolata: davanti a me si distendeva un mare di gente, folla variopinta, vociante e festante, sguardi per lo più concentrati sugli smartphone in modalità video oppure proiettati verso il punto di ristoro e le nuove attrazione (degne di Dubai) realizzate qui.
Ho capito in fretta che la camminata in silenzio verso la Monch Hutte tutto sarebbe stato fuorché un’escursione in quota, come si conviene agli alpinisti. Lassù c’era il mondo intero: tanta, tantissima Asia, molta America e (almeno in apparenza) poca Europa: la fotografia perfetta dei tempi odierni. Passo dopo passo, mentre osservavo i tanti indisciplinati che, in barba agli avvisi ben evidenti sul percorso, attraversavano il ghiacciaio come fosse un prato primaverile, mi chiedevo che significato avesse per loro essere qui. Pensavo ai cartelli che avevo visto all’interno, con le indicazioni su come usare i bagni o buttare i rifiuti e riflettevo (con la lentezza dell’alta quota) sul senso di tutto ciò.
Sono scesa da Top of Europe piena di interrogativi; cercavo tracce delle mie letture, ho trovato un mondo nuovo, lontanissimo dall’epopea alpinistica del Novecento; cercavo il silenzio della montagna e la vastità degli orizzonti e ho trovato il suono, senza dubbio allegro, dell’umanità in marcia; cercavo pace nella fatica e ho trovato fatica nella confusione, più o meno come se fossi rimasta in Valle. Ho conservato l’ammirazione per l’efficienza e l’organizzazione, ma questa volta ne ho smarrito il senso. Ho pensato alle “nostre” montagne, al “nostro Bernina”, ai “nostri Palù”, ho apprezzato lo sviluppo che sto osservando tra noi.
Sono davvero due modelli diversi di sviluppo o sono solo due stadi diversi di un medesimo scenario? Non so; so però che a fine luglio il World Economic Forum ha pubblicato uno studio interessate sull’ “Overtourism” che colpisce molte città: un’autentica invasione pacifica di turisti che trasforma abitudini e costumi e spinge a riflessioni profonde. Il futuro ci riserverà certo sorprese stimolanti
Chiara Maria Battistoni