Sulla morte e sul morire

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Da dx: Paolo Tognina e Sergio Manna - Foto di Achille Pola

di Josy Battaglia


È inutile, non c’è nulla da fare. Se avete mancato le conferenze organizzate da Paolo Tognina e la Comunità Riformata Valposchiavo il 28 ottobre e 18 novembre scorso, vi siete persi qualcosa. Riassumere quanto esposto dai referenti, e il loro articolato pensiero, è al tempo stesso impresa presuntuosa e complicata. Insomma, le premesse affinché questo articolo fallisca in ogni suo intento sono date. Eppure sono convinto che andasse scritto, se non altro affinché rimanesse una traccia del recente passaggio dalle nostre parti di Alberto Bondolfi e Sergio Manna. La sensazione è che, a dispetto delle tematiche trattate, nei contenuti come nella forma, il fortunato e folto pubblico si sia trovato di fronte a qualcosa d’importante e necessario. Concedetemi dunque il lusso di un arbitraria selezione di quanto più mi ha colpito, nonché il difetto dell’imprecisione.

Due voci autorevoli
Alberto Bondolfi, intervenuto il 28 ottobre, non è un ospite qualunque. Si tratta infatti di un etico di prima fascia; non un filosofo della domenica, bensì una voce autorevole del panorama svizzero ed internazionale sul fine vita. Un illustre teorico che durante la serata ha dato sfoggio di grande conoscenza, in una narrazione a volte sopraffatta dai tecnicismi del caso, senza mai perdere il contatto visivo ed emozionale col pubblico. Ascoltandolo ho avuto la sensazione che si trattasse infondo un po’ come del vicino di banco ai tempi delle elementari, che nella vita ha fatto un sacco di strada per poi tornare a raccontarci di avventure incredibili, come non se ne fosse mai andato. Alberto Bondolfi fa più probabilmente parte di quegli studiosi che per anni si sono chinati giorno e notte su un problema specifico, e alla quale scienza e conoscenza vorremmo di riflesso attingere il più possibile. Persone che segnalano qualcosa di rilevante a chi come noi, spesso è troppo distratto per cogliere le sfumature che riguardano meraviglie e miserie del mondo, e che al tempo stesso conoscono bene la nostra lingua, una lingua comune.
In Sergio Manna, referenziere del 18 novembre, si riassumono invece, oltre a una formazione teologica (con propensione al counselling e agli insegnamenti di Carl Rogers), una chiara competenza ed esperienza professionale quale cappellano clinico e formatore, nonché una napoletana attitudine all’irriverenza (concedetemi il cliché), che nel parlare appunto di morte, non guastano affatto. Anzi, diciamola tutta, facilitano il compito. Manna incontra da anni i morenti, e da questa esperienza ha tratto autorevoli insegnamenti che ha voluto condividere in una serata dove non sono mancati momenti di leggerezza e commozione.
Nelle due conferenze, a fronte della profondità di discorso di cui i due sono stati capaci, e dell’intima tristezza che avrà attraversato almeno una volta i pensieri dei presenti in sala, in certi frangenti è sembrato si parlasse d’altro fuorché di morte.

Parlarne oggi
Uno dei motivi per cui oggi è complesso parlare di morte, è che ci viene chiesto di prendere posizione su qualcosa a cui non siamo stati abituati a rispondere. Bondolfi ha mostrato un atteggiamento decisamente aperto sul tema, che lui stesso definirebbe per certi versi liberal. Quando si parla di desideri e diritti (nella fattispecie il desiderio o il diritto di morire), ci si muove sulle sabbie mobili. Anche per questo motivo chi è chiamato oggi a legiferare sul tema, nella sceneggiatura che vede per l’appunto lo Stato (di tutti noi) soppiantare un potere e volere che un tempo fu monopolio della Chiesa (solo del Clero e dei credenti), si trova di fronte a una sfida oltremodo complessa. Risultato? Nel Codice Penale Svizzero in merito al tema del fine vita troviamo solamente due articoli di legge che, dal 1941 in poi, nessuno è più riuscito a rivedere, ripensare, riscrivere. Alberto Bondolfi lo sa bene, in quanto ha fatto parte di commissioni che hanno dibattuto in merito e hanno provato a riscriverli quegli articoli, purtroppo fallendo anche dopo molti anni di lavoro quando il dossier, finito fra le mani di politici in cerca di voti e consensi, è stato più volte messo in disparte, parcheggiato (per certi versi archiviato), a fronte di pigrizia e soprattutto timori.
Sergio Manna dal canto suo ci rende attenti di un elemento aggiuntivo riguardo al parlar di morte nel tempo. Vi è stato un passaggio, dal secolo scorso a quello in cui viviamo, dal non parlare di sessualità al non parlar di morte. Il tabù della sessualità, che oggi sembra essere ormai sdoganato, ha soppiantato il prepararsi ed educare alla morte. In parallelo, se vi fu un tempo in cui morire all’improvviso era considerata la sfortuna più grande, se non un immane peccato, oggi si sente dire che chi muore d’infarto, all’improvviso, ha beneficiato del miglior morire, senza troppi patemi (e senza essersi dovuto preparare per forza). La parola morte non si dice più, e la conferma sembreremmo trovarla nella storia dei necrologi di cui ci ha parlato anche Alberto Bondolfi, dove si trovano mille modi per non dirla quella parola, letteralmente. Come spesso accade però, a fronte di questa presa di coscienza, si sono sviluppati anche nuovi approcci al tema che, in questo caso, ci vengono suggeriti soprattutto dai paesi anglosassoni, dove Manna si è in parte formato e ha lavorato.

Foto di Achille Pola

Lo Stato e la cura umana della persona
Ma torniamo allo Stato, nel nostro caso la Svizzera, che non riesce a legiferare sul tema del fine vita. Bondolfi ci rende attenti a come sia proprio in questo contesto che sono nate realtà come quella di Exit, l’associazione che in Svizzera si occupa di accompagnamento e aiuto alla morte. Un’offerta che da una parte va a colmare, in maniera del tutto legale, una mancanza della politica in tema di diritti del cittadino, ma che infondo sostituisce lo Stato nella pur difficile ricerca di equilibrio fra questi diritti. Diritti che così rischiano di prendere il sopravvento l’uno sull’altro, portando con sé una deriva estrema che solitamente non porta a nulla di buono. Bondolfi elenca alcuni di questi assolutismi derivanti per esempio dal diritto all’autodeterminazione (il diritto a non essere costretti, che non significa aver esaudito ogni desiderio), dal diritto alla sedazione (il diritto ad aver lenito il proprio dolore, col rischio di ritrovarsi con le case di cura piene di individui costantemente sedati) e l’assunto, più che il diritto, che vorrebbe veder prevalere sempre la vita sulla morte (diritto alla vita che, portato all’estremo, si traduce a volte in accanimento terapeutico). Oggi, su suolo elvetico, si assiste a ognuno di questi fenomeni. Ma se l’uno o l’altro prendesse invece il sopravvento per mano del legislatore (come avviene in altri Stati dell’Unione Europea), si avrebbero situazioni non applicabili a tutti. Si preferisce perciò uno stare fermi sul posto, non per forza il peggiore dei mali, in questo caso.
Manna dal canto suo invece ha raccontato dell’accompagnamento al morente nel quotidiano, consapevole dei limiti del proprio intervento, di quei momenti in cui nessuna parola può servire. Ed è questa consapevolezza a rendere credibile il suo intervento, durante il quale viene sottolineata la differenza fra il guarire la malattia e il prendersi cura della persona che soffre. Una malattia secondo Manna infatti può purtroppo essere inguaribile, mentre ogni persona che soffre è invece umanamente curabile. Per farlo però serve allenarsi a un ascolto attivo, fatto di incontro fra esseri umani, dove non ci si pone passivamente l’uno di fronte all’altro in modalità uditiva, bensì si partecipa tramite paziente accoglienza, riformulazioni empatiche, e lavoro su sé stessi in termini di pregiudizi sulla morte e il morire (ciò che si sa già). Un po’ come quando se ne parla coi bambini, mi viene da aggiungere, dove siamo tenuti ad aggrapparci per forza di cose alla loro esigua conoscenza, partendo dalla loro ignoranza e dalla loro nuova lingua, fatta di purezza come di imprecisione terminologica sull’argomento. Esercizio che il professore propone agli alunni aspiranti cappellani, che spesso di fronte alle incertezze portano con sé i testi bibblici, a volte quale comoda via di fuga, a volte semplicemente come spunto dal quale costruire senso e narrazioni possibili di fronte all’ignoto.

Le giuste domande e la diagnosi spirituale della persona
Dicevamo di come la Confederazione al momento non intervenga, bensì si tenga stretti i due articoli di legge del 1941 che, pur sapendo di rinuncia, lasciano spazio a una formula che, come conclude Bondolfi sembrerebbe suggerire un assioma di questo tipo: sarebbe buona cosa morir tranquilli, senza modificare il corso delle cose, ma se qualcuno vuol morire, non procediamo a punire nessuno. Mentre in paesi come l’Inghilterra ancora fino al 1964 chi tentava il sucidio, e malauguratamente non riusciva nell’intento, veniva punito per legge, questo pur datato elvetico punto di vista giuridico e morale sulla questione, sembrerebbe essere anche il più moderno. Forse davvero si dovrebbe fare più spesso come gli ebrei che di fronte a questioni troppo complesse, suggeriscono di stare zitti. Si rischia nulla. Cultura ebraica, dalla quale al tempo stesso dovremmo imparare, come in certi casi siano le domande giuste a portarci più lontano delle facili risposte.   
In un’epoca di rimozione della sofferenza e del dolore, Manna invita infine ad aiutare le persone a prepararsi maggiormente alla morte. Siamo chiamati a reagire, a volte anche col silenzio e in posizione di ascolto attivo, cercando di ridare dignità a una parola abusata e svuotata di senso come l’empatia. Siamo chiamati a concentrarci su chi abbiamo di fronte, favorendo semmai (se proprio non ne possiamo fare a meno) l’emergere di una diagnosi spirituale prima che somatica, consapevoli che non ci potremo mai mettere negli stessi identici panni del morente. Ed è lì, in quella stanza d’ospedale, o nella poltrona di casa propria che forse, come accadde a un certo punto in quel racconto di Lev Tolstoj citato anche da Sergio Manna, come un umile servo nella casa del più illustre magistrato di San Pietroburgo, guarderemo con maggiore verità all’inevitabilità della morte.  


Per chi volesse saperne di più su vita e opera di Alberto Bondolfi, nell’edizione nr. 10 (ottobre 2022) della rivista Voce Evangelica, è apparso un contributo riassuntivo da parte di Paolo Tognina (“Alberto Bondolfi, una vita da etico” che, per gentile concessione trovate cliccando QUI).  

Recentemente il “Theologischer Verlag di Zurigo” ha pubblicato una raccolta di saggi intitolata “Handeln in einer mehrdeutigen Welt”, che rappesenta in qualche modo la summa del pensiero di Alberto Bondolfi.

Sergio Manna, Pastore valdese, è professore incaricato di Pastorale clinica presso la Facoltà valdese di Teologia di Roma, cappellano clinico e supervisor in Clinical Pastoral Education (CPE). Membro del College of Pastoral Supervision and Psychotherapy, si occupa anche di formazione alla cura e all’accompagnamento dei malati, dei morenti, dei caregiver presso strutture diaconali, ospedaliere e hospice.

L’ascolto che cura. La Parola che guarisce. Introduzione al counseling pastorale. Di Sergio Manna, Claudiana Editore, piccola collana teologica, pg. 121, 2017, ISBN 9788868981419

La morte di Ivan Il’ič, pubblicato per la prima volta nel 1886, è un racconto di Lev Nikolaevič Tolstoj. È una delle opere più celebrate di Tolstoj, influenzata dalla crisi spirituale dell’autore.