Un rabbino e un pastore riformato in dialogo in una stanza del Vecchio Monastero di Poschiavo. Un dialogo aperto alle numerose persone intervenute fra il pubblico e al presenziare silenzioso delle suore agostiniane, delle quali quel luogo, ora non più loro, è stato un tempo casa natale. Questa è la cornice dell’”incontro col rabbino” tenuto il 22 gennaio, organizzato dal pastore di Brusio Paolo Tognina e che ha avuto come ospite il rabbino di Genova nonché affermato violinista rav Haim Fabrizio Cipriani, nell’ambito del ciclo di incontri “Perfidi giudei, fratelli maggiori”.
L’essenza degli ebraismi
Chi meglio di un rabbino per parlare di ebraismo? – ci si potrebbe chiedere, naturalmente. Ebbene, il rabbino Cipriani ha da subito precisato che non si può parlare di ebraismo, bensì di ebraismi. L’ebraismo, infatti, è primariamente l’espressione culturale del popolo ebraico e questa si declina in una pluralità di forme, ciascuna delle quali esprime le diversità degli ebrei stessi. Esistono infinite interpretazioni dei testi sacri e numerosi rami dell’ebraismo, ognuno con le proprie specificità. Per chi fosse interessato è semplice trovare macrocategorizzazioni suddivise per aree d’ispirazione delle correnti ebraiche. Di tale varietà si comprende meglio il senso grazie alla domanda di Paolo Tognina sul compito del rabbino: «affliggere i comodi e dare conforto agli afflitti». Cipriani spiega inoltre che una delle forme di ordinazione rabbinica (semikhah) è la “yorè yorè”, che significa propriamente “insegnerà insegnerà” nel senso di “indicare la direzione”, perché etimologicamente richiama il dardo scoccato dall’arco. Il rabbino non dà risposte definitive, ma piuttosto offre modalità di pensiero da utilizzare in autonomia. «Non mettiamo un punto, ma due punti: il nostro compito è aprire nuove possibilità di confronto e interpretazione, lasciando spazio a visioni diverse: indicarne alcune e far spazio per tutte le altre».
Ebraismo come azione e comunità
Si è parlato anche di trascendenza, di destino e del perché la religione ebraica attragga molti attraverso il suo fascino. L’ebraismo, secondo il rabbino Cipriani, è una tradizione radicata nell’azione e nella responsabilità: «il popolo ebraico nasce con l’uscita dall’Egitto, quando Dio si presenta non come creatore, ma come liberatore. La libertà non è fine a sé stessa, ma serve per assumersi responsabilità, per agire e migliorare il mondo». La preghiera non è solo un atto spirituale, è anche un momento di autoanalisi e giudizio interiore. L’ebraismo, in quanto espressione culturale, non si esaurisce certo nei suoi aspetti religiosi: la Torah, ad esempio, prima di essere un testo sacro, è una “biblioteca nazionale” che racchiude poesia, filosofia e letteratura in testi quasi inconciliabili tra loro. Questo approccio “inclusivo” permette all’ebraismo sì di dialogare agevolmente con il mondo moderno, ma soprattutto conserva già nelle sue origini una complessità e varietà di modelli antropologici che includono vari aspetti dell’uomo; sottraendosi, al contempo, dall’essere un riferimento univoco.
Per quanto riguarda il divino, «la trascendenza di Dio è totale, e questo affida la responsabilità all’uomo: ci è stato dato tutto ciò che serve per agire qui e ora. Non possiamo delegare al divino ciò che è nostro compito ed è nelle nostre possibilità». Ci fa notare, tra l’altro, il rabbino che “pregare”, in ebraico, è un verbo riflessivo, un atto di introspezione che di per sé non implica e non delega alla provvidenza, condotta questa che invece va verso una deresponsabilizzazione. In linea con tale prospettiva è l’idea – personale, in questo caso, di rav Haim Fabrizio Cipriani – che non esista un progetto divino per ogni individuo, quanto piuttosto, ammesso che esso vi sia, un progetto per l’intera specie umana. Questa visione agevola la questione che riguarda chi si trova a vivere condizioni drammatiche o in luoghi del mondo dove la stessa sopravvivenza è compromessa: che progetto divino vi sarebbe per costoro e quali conseguenze sull’idea di Dio? Cipriani suggerisce che forse quelle condizioni sono più che altro il risultato di incidenti storici, condizioni tutte che noi con azioni buone possiamo migliorare.
La prospettiva sul conflitto
Inevitabile la domanda scabrosa sul conflitto in corso tra Israele e Hamas, o fra Stato di Israele e popolo palestinese. «Intanto, molte delle cose affermate (tramite gli organi mediatici) sono basate su un’informazione non corretta: nessuno nega il dramma della popolazione Gaza: ogni morto è un morto di troppo. Ciò detto, le cifre di Hamas sono false. Nessun ospedale né scuola sono stati bombardati se non perché centri strategici di Hamas, e quindi a tutti gli effetti obiettivi militari. La guerra di Gaza è la guerra moderna col minor numero di vittime civili in rapporto alle vittime non civili: 1 a 1, rispetto a 1 a 7 o 1 a 8. Sempre troppo, ma è una guerra: una guerra che Israele non ha scelto ma ha subito. E che qualsiasi capo di stato avrebbe fatto perché non v’era altra scelta. 7 ottobre a parte, il lancio costante di missili già da prima… la striscia andrebbe rioccupata e mai lasciata di nuovo. Lo dico da ebreo di sinistra: ripresa e mai più lasciata».
Non era l’obiettivo dell’incontro parlare di guerra ma, purtroppo, questa fa parte delle cose del mondo. L’idea che Cipriani ha dell’ebraismo è di una cultura e di una religione «pacifista nei fini ma non nei mezzi – ha dichiarato», aperta al dialogo quando chi vuole dialogare non minaccia l’esistenza dell’altro: altrimenti prima si elimina la minaccia e poi si iniziare a parlare. Si può anche concedere, in tempo di guerra, la liceità di alcuni di questi pensieri e di queste posizioni. Mi chiedo però se davvero sia sostenibile una tale condotta, soprattutto da parte di un popolo che ha subito numerose atrocità, per un obiettivo che sia in qualche maniera migliorativo. Ammettendo che Hamas sia un’organizzazione terroristica con un fine ignobile e pensando alle parole di Benny Morris “finché ce ne sarà anche uno solo bisognerà continuare”, forse dovrebbe sorgere il dubbio che perpetrare tanta violenza non eliminerà la possibilità di un futuro in cui qualche nuovo movimento terroristico risorga ripresentando le stesse modalità. Allora siamo sicuri che al linguaggio della guerra convenga rispondere con lo stesso linguaggio? Perché continuando così la pace, più che attraverso le bombe, sarà forse possibile solo quando chi ha subito ingiustizie saprà perdonarle.