”Poschiavo nei nomi” di Fernando Iseppi

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Il 24 maggio u.s. Fernando Iseppi, in collaborazione con la Società Storica Val Poschiavo e la Pro Grigioni locale nonché con i suoi diretti collaboratori Alessandra Jochum-Siccardi e Pierluigi Crameri, ha presentato la sua nuova opera Poschiavo nei nomi. Vie e piazze, ponti e fontane in documenti e immagini, edita dalla SSVP e stampata dalla Tipografia Menghini. È stato un grande successo poiché il libro, arricchito da una stimolante e inedita iconografia, è un monumento al Borgo di Poschiavo che si legge come la biografia di una persona cara e si decifra come un grandioso affresco storico, senza parlare della valenza scientifica magistralmente spiegata nella prefazione di Daniele Papacella e nell’introduzione di Alberto Ruggia.

Il libro si suddivide in due parti. La prima comprende cinque capitoli di carattere generale. Presentano, sviscerano e valorizzano il metodo di lavoro l’impianto viario nel suo complesso e nelle sue caratteristiche, il sistema idrico inscindibile da quello viario, i migliori esempi della documentazione iconografica (mappe, planimetrie, disegni, stampe, fotografie e dipinti) nella loro dimensione diacronica e, non da ultimo, l’importanza della toponomastica come fonte di informazione storica. La seconda parte comprende quattro capitoli di schede puntualmente dedicate alle singole vie (quarantadue), piazze (tre), ponti (tre) e fontane (dodici), arricchite da un’abbondante documentazione d’archivio, testi di cronaca, aneddotica, pubblicità e da testimonianze orali, oltre alle già citate illustrazioni.

Poschiavo nei nomi è il titolo dell’opera a significare che l’etimologia degli stessi ha la sua importanza. Iseppi dichiara, infatti, che questo era uno dei suoi obiettivi: far capire come anche le strade e i loro nomi sono una parte importante della nostra storia. ‘Ma più che una storia di Poschiavo rivisitata attraverso le sue vie’ – sono parole sue – egli ha ‘pensato alle tante storie, alle voci che ancora oggi si sentono quando nel Borgo ci capita di ascoltare il silenzio. Così vengono alla luce i bisogni della gente umile, che raramente ha avuto modo di parlare al pubblico, di mettersi in mostra, ma che tanto ha meritato’. È proprio così, un libro complesso che per essere decentemente presentato non basta lo spazio concesso dal giornale, per cui rimandiamo alla recensione che apparirà prossimamente sui Quaderni Grigionitaliani.

Qui ci limitiamo a felicitarci con l’autore per un’opera che oltre ad essere un importante monumento scientifico costituisce una dichiarazione di amore al nostro centro valligiano e a chi attraverso i secoli l’ha reso così attraente. Ci congratuliamo infine con i collaboratori di Iseppi: Alessandra Jochum-Siccardi per le splendide schede sulle fontane, Selena Raselli (assente alla presentazione) per le incantevoli fotografie della situazione attuale; Pierluigi Crameri per l’accurata scelta, insieme a Fernando, delle preziose fotografie d’epoca, delle mappe e planimetrie, dei disegni e dipinti, nonché per la grafica e l’impaginazione; Daniele Papacella e Alberto Ruggia per la prefazione e l’introduzione.


Ho letto d’un fiato il libro di Fernando Iseppi, il quale ha sollevato in me un turbine di sentimenti e di ricordi dalla prima infanzia al presente, quando andavo al Convento a trovare la Zia Suor Antonia, in Palestra a disinfettare le pecore contro la rogna, al Ristorante Bernina a portare le micche in bicicletta, al Suisse a fare i primi balli, al Cinema Rio a vedere i film. Le vie e le ‘burche’ coi rispettivi monumenti hanno ridestato in me il ricordo di quando li facevo disegnare agli allievi nelle lezioni di disegno all’aperto, che disegnavo insieme a loro e che poi dipingevo ad acquarello e ad olio, sognando di diventare un pittore certamente più famoso di Fernando Lardelli. Alla distanza di sessant’anni, due quadri di quel tempo, una veduta della Burca di Sottosassa verso S. Vittore, e una della Via di Mezzo da nord verso la Piazza, sono tuttora appesi nel mio tinello; certamente non per la loro valenza artistica ma per il loro valore affettivo. Lo stesso affetto che ha spinto Iseppi ad erigere al Borgo un perenne monumento, pur non essendovi nato così come il sottoscritto. L’ho letto come se fosse la fedele biografia di una persona amata e decifrato come un grandioso affresco storico, apprezzandone nel contempo la valenza scientifica, come è magistralmente spiegato e si dichiara soddisfatto che il racconto dei nomi delle strade

Può succedere a tutti di presumere di sapere molto o quasi tutto su un determinato argomento e poi di constatare che è vero il contrario. È successo a me leggendo Poschiavo nei nomi. Ho scoperto socraticamente che conoscevo solo una parte infinitesimale di detta realtà. Ma è proprio questo l’aspetto più affascinante: scoprire quali sono i rioni e le vie con annessi e connessi la cui genesi affonda le radici nella notte dei tempi, quali si sono creati in seguito, quali i documenti che li attestano, il modo come sono stati chiamati. Quando, perché, attraverso quali e quante metamorfosi una via, una piazza, un ponte o una fontana sono diventati quello che sono attualmente, e magari si credeva che fossero sempre stati pressappoco così. Qualsiasi esempio è illuminante, tanto i più macroscopici come quello della Piazza comunale con la sua Collegiata, la Caminata scomparsa, la fontana più antica e più rifatta del Borgo, quello pionieristico dei Cortini o di Spoltrio, quanto quelli più umili, magari il Burchin di Puntunai, o il Mot da Jochum, o certi angolini curiosi nei dintorni di Via da li Sberleffi.

Le schede fanno anzitutto tesoro delle testimonianze più remote d’archivio, di mappe e planimetrie, se ci sono (Archivio Comunale, Comunità Riformata, Parrocchiale Cattolico, Archivio di Stato a Coira, PTT a Köniz). In secondo luogo si basano su cronache, commenti e aneddoti, sulla pubblicità di giornali e riviste, in particolare del Grigioni Italiano. In terzo luogo su ulteriori documentazioni reperite in una settantina di opere di autori nostrani e non, dei quali è d’obbligo ricordare almeno lo storico Daniele Marchioli e gli inarrivabili urbanisti (almeno per Poschiavo) Tommaso Lardelli (per i Palazzi e la Via Olimpia) e Pietro Zala (per la via del Crotto e gli utopistici ‘Eden’ e ‘Quartiere del Parnaso’). Si aggiungono infine importanti testimonianze orali, per esempio di Guglielmo Semadeni e di Delia Lanfranchi. Da queste fonti emerge tutta la problematica delle iniziative private, del sostegno pubblico (Corporazione del Borgo, Società del Risveglio, Pro Poschiavo, Comune, Cantone) con un’interminabile casistica: la scelta dei tracciati e dei materiali, la ripartizione delle spese, la scelta dei nomi, gli inconvenienti come l’acqua delle gronde prive di grondaie, lo sgombero della neve, i letamai maleodoranti, l’ingombro di strade e piazze con panche, scalini e depositi di legname, l’inquinamento a causa di escrementi, lo smaltimento improprio dei rifiuti nei corsi d’acqua, il cambiamento di destinazione di strade e piazze a causa delle calamità naturali, dell’avanzare del progresso e del traffico, la promozione dell’igiene, le fognature, l’illuminazione, la ferrovia, la circonvallazione, l’ambizione estetica di avviare Poschiavo a diventare città. E ogni scheda è coronata da una ricca aneddotica, spesso esilarante, che ricorda fatti, persone originali, come Marco Mora di buona memoria che ‘macinava le ossa’ in Via di Spoltrio, o animali come aquile, martore, volpi e caprioli, che hanno contribuito a caratterizzare ogni luogo pubblico.

Le citazioni, puntualmente virgolettate, sono fuse in un limpido e piacevole discorso connettivo, da osservazioni e riflessioni che rispecchiano fedelmente il sentimento e il buon senso della nostra gente. Un discorso che trasforma i singoli documenti in vivaci pennellate di un unico grande affresco di circa un millennio di storia, caratterizzata da due costanti: da una parte l’inarrestabile mutamento delle cose, e dall’altra la tenace conservazione, la tradizione evidente fin dai primi documenti del Duecento, di nobilitare, italianizzandolo, il nome di ogni luogo. Proprio in ottemperanza alla legge generale del mutamento, è dunque comprensibile che a un certo punto della storia si sia sentito il bisogno di voltar pagina e di introdurre ufficialmente l’odonomastica in dialetto. L’autore ne dà oggettiva testimonianza senza giudizi di merito, lasciando comunque trasparire simpatia per la tradizione. Una cosa è comunque certa: in virtù della tendenza inarrestabile al cambiamento muteranno a loro volta anche i nuovi nomi dialettali fissati nel 1983. È solo questione di tempo. Speriamo che allora non si cambino in cinese o in qualche altra lingua che non sia l’italiano.

Iseppi scioglie parecchi nodi, riporta le ipotesi finora formulate e con cognizione di causa propone la versione più accreditata, lasciando aperta la questione quando nessuna interpretazione è convincente. È il caso della parola ‘burca’, tanto importante per il nostro centro. Rifiuta le proposte formulate (p. 160), ma grazie a una citazione del giornalista Franco Monteforte egli mi fornisce la prova che la mia personale chiave di lettura di questa parola non è altro che ‘vuoto’, il vuoto tra due o più case. Ed ecco la spiegazione: nella suddetta nota a p. 248 a proposito della Via dei Palazzi si legge che «la carreggiata costituiva una fascia comune ‘vuota’ che garantiva quello spazio libero ‘di vita sana e piacevole’ tra il verde e l’abitazione». La chiave è la parola ‘vuoto’ adoperata per un luogo di transito. Ora, cosa ha a che fare ‘vuoto’ con ‘burca’? Ecco la risposta: sopra l’alpe di Torno c’è un pascolo che si chiama Laras burch, codificato in ‘Lariceburco’ a p. 23 del Protocollo del Monte alpivo di Torno cominciato nel 1893 (Archivio privato, Le Prese); i nostri vecchi ci spiegavano che burch non aveva niente a che fare con ‘borgo’ o Friburgo o nomi del genere; burch voleva dire ‘vuoto’ in quanto si trattava di un larice marcio e svuotato nel mezzo. Fosse anche solo etimologia popolare, questa spiegazione potrebbe valere anche per la parola dialettale ‘burcheta’ e le parole italianissime di burchio e burchiello, che sono un tipo di barche.

Un discorso analogo vale per le dodici schede sulle fontane redatte da Alessandra Jochum-Siccardi che ha fatto anche la revisione di tutta l’opera. Basandosi, per quanto riguarda l’ubicazione, sull’odonomastica sviscerata dal collega Fernando, Alessandra illustra la rete idrica e le fontane e racconta la loro storia. È un piacere leggere la limpida descrizione dei vari elementi che compongono gli impianti, dalla primitiva capiente vasca in lastroni di granito o beola, a quelle in cemento armato, per ritornare a quelle in pietra, anzi in serpentino del Clef o nuvolato di Zalende. È interessante seguire l’evoluzione dei vari sistemi di approvvigionamento, dai corsi d’acqua naturali alle fontane, all’acqua corrente in ogni casa, e constatare il mutamento della funzione utilitaristica delle fontane in funzione estetica e rappresentativa. Ovviamente la scheda più illuminante è quella della fontana in Piazza, proprio per la sua antichità, la sua importanza, quella che più di ogni altra rispecchia l’urbanizzazione di Poschiavo. Le fontane, non meno delle strade, ci appaiono come la cartina al tornasole dei cambiamenti epocali. Anche Alessandra si basa sulle fonti sopra citate. Fra tanti inarrestabili cambiamenti anche da questi documenti scritti emerge la costante incrollabile della tradizione di italianizzare i nomi, alla quale Alessandra aderisce coerentemente nei nomi delle fontane, ed evitando quel non so che di fastidioso che suscita un testo in lingua infarcito di dialetto.


Massimo Lardi