“Come può un Dio buono permettere il male?”
Anche IL BERNINA ha voluto approfondire, rivolgendo alcune domande al pastore Di Passa.
Nel corso dei mesi di gennaio e febbraio 2012 il pastore della Comunione Pastorale Riformata della Valposchiavo, Antonio Di Passa, ha organizzato e tenuto una serie di incontri pubblici sul tema della Teodicea: “Onnipotente, Infallibile, Apatico? Il problema della Teodicea come domanda su Dio. Come può un Dio buono permettere il male?” Una conferenza e la visione commentata del film “The Tree of life”, di Terrence Malick, con discussione finale a Poschiavo e – su richiesta dei partecipanti alle prime serate – anche una conversazione aperta a tutti, a Brusio, per riflettere ulteriormente sul tema. Notevole la partecipazione di pubblico. Anche IL BERNINA ha voluto approfondire, rivolgendo alcune domande al pastore Di Passa.
“Come può un Dio buono permettere il male?” Come si può spiegare la giustizia divina in relazione alla presenza del male nel mondo? Una questione quanto mai complessa. In sostanza è come chiedersi perché esiste il male?
Dovendo rispondere brevemente senza essere banale, bisogna affermare che, l’Antico Testamento, nei primi undici capitoli della Genesi, non spiega razionalmente la presenza del male, ma esprime il suo amareggiato stupore per un’umanità che perde l’armonia con il suo Creatore e con la creazione, allontanandosi da Lui. In breve, possiamo dire, l’umanità dà spazio all’assenza di Dio in cui il male cresce e si solidifica. L’oggetto della conferenza però, verteva più sulla domanda dell’onnipotenza, della giustizia e dell’amore di Dio visto come salmo di lamentazione che scorre incessantemente nella storia dell’umanità. Molti smettono di credere perché la loro immagine religiosa di Dio veicolata dalla religione li scandalizza, l’umano si sente addirittura “più misericordioso” di Dio, e allora che cosa ha da dirmi un tale Dio? E molti si chiedono: Può esistere un Dio che permette o tollera tante atrocità, è davvero buono o è cattivo?
Da qui abbiamo ripercorso alcune risposte che esseri umani si sono dati nella storia e nelle culture diverse, ponendo attenzione al fatto che, chi vuole parlare in modo corretto del problema della teodicea non può parlare sul dolore, ma del dolore, in breve, della condizione di sofferenza. Non abbiamo voluto fare, in poche parole, della teoria sul problema della sofferenza, ma partire proprio dall’esperienza.
Anche Giobbe, uomo retto e devoto, dopo una serie di disgrazie che lo colpiscono, esprime a Dio la sua incomprensione: quale risposta riceve?
Giobbe deve essere compreso come una discussione sul problema della sofferenza innocente e ingiusta, in cui la visione tradizionale del Dio Onnipotente, che punisce i peccatori e ricompensa i giusti va in crisi. In questa discussione i tre amici di Giobbe rappresentano il tentativo di presentare il male come punizione per la colpa, come prova e purificazione della persona. La loro teologia segue la logica azione – punizione: Dio, con la minaccia di punire i peccatori e di dare protezione ai pii e ai giusti, mediante quindi sanzione e gratificazione, mantiene l’ordine nel mondo e manovra così la corsa degli umani.
Il giudizio sulla teologia degli amici di Giobbe da parte divina è chiara: “L’ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.” (42.7)
Dio non dà a Giobbe una vera e propria risposta, ma si rivolge a lui, ciò che gli vale molto, perché riceve l’attenzione di Dio. Nel cap. 42.1ss Giobbe dice: “Il mio orecchio aveva sentito parlar di te ma ora l’occhio mio t’ha veduto. Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere”. È strano perché Giobbe non ha visto nulla. Nella Bibbia questo vedere ha un significato più forte del semplice percepire. Il vedere biblico è un atto di conoscenza superiore, che confina con l’estasi profetica. Tutto quello che Giobbe aveva affermato prima di averne avuta conoscenza, lo aveva fatto sulla base della tradizione “ascoltata”, possiamo dire “per sentito dire” di una religiosità formale. Quando però giunse a una vera conoscenza di Dio, ammise che la vera felicità è per chi lo conosce; ed essa non potrà essere compromessa da questo tipo di sofferenza. Giobbe aveva creduto che le felicità apparenti fossero lo scopo della vita; la salute, la ricchezza, i figli; e questo fino a che conosce Dio solo attraverso la narrazione e non tramite l’incontro personale con Dio. “Avevo sentito parlare di Te, ma ora il mio occhio ti ha veduto”.
Se da Dio accettiamo il bene perché non dovremmo accettare anche il male?
Io vedo qui un’analogia con l’esperienza di Giobbe. Egli fino ad allora aveva avuto un rapporto indiretto con Dio, per sentito dire, tradizionalista. Ora, è come se vedesse quello di cui aveva sentito vagamente parlare. C’è intimità con Dio, parla con lui. Nel suo confrontarsi con il Signore, va in frantumi l’immagine di questo Dio, la sua visione cambia. Giobbe ha osservato un Dio che ha piacere della sua creazione e che interviene in prima persona per il suo mondo. Non capisce ancora, ma gli viene il dubbio che il Signore sa quello che sta facendo. Ha fiducia, è nelle mani di Dio, dipende da Lui e non da se stesso. Egli scopre che non sono le condizioni umane che cambiano il nostro rapporto con Dio: non mi ama di più se mi va bene e non mi ama di meno se sto male. Il suo amore per noi non cambia, mutano solo le nostre situazioni della vita. Da questo Giobbe trae forza, per accettare la sua sofferenza e noi la nostra (42:2 – 7).
Dio ha permesso che il suo stesso Figlio subisse il male. Dove ci porta questa constatazione?
Più che “permesso”, Gesù ha realizzato la volontà di Dio. Le visioni del Nuovo Testamento sono una continuazione delle affermazioni del libro di Giobbe! Anche se la risposta si trova davanti al crocefisso e risorto Gesù Cristo. Davanti al Cristo crocefisso si deve parlare di Dio partendo dalla sua responsabilità verso la persona e il mondo, che avviene nell’impotenza della croce e nella sofferenza. La croce di Gesù è la risposta pratico–storica sulla Teodicea: Dio non rimane impassibile nei confronti della sofferenza del mondo, ma si espone in prima persona con questa sofferenza; nel suo Figlio si mette volontariamente nelle mani del male (Rom.8.32: “… Colui che non ha risparmiato il suo proprio Figliuolo (Lui stesso nel suo proprio Figliuolo) ma l’ha dato (= se stesso in Lui) per tutti noi.”) In Cristo, scopriamo che Dio non è un nostro nemico nella sofferenza che umanamente possiamo incontrare, ma Colui che ci è accanto, che ci sostiene e ci guida.
Questo porta il credente a chiedersi: Voglio credere che, in Gesù di Nazareth, il quale ha mostrato la sua misericordia con le persone in ogni situazione e ha sofferto fino alla morte, e ha dimostrato la sua disponibilità e dedizione, è testimoniata la sofferenza di Dio stesso nel più profondo del male?
Con questo il male non è né spiegato né giustificato; è detto solo che una porta della speranza rimane aperta, nonostante il male. Forse è poco, rimangono tante domande da fare a Dio; per il momento, però, come fu risposto all’apostolo Paolo: “… la mia grazia ti basti!”
Come spiega l’interesse suscitato nella popolazione della Valposchiavo dal ciclo di incontri da lei proposti sul tema della Teodicea? Cosa denota?
Il tema della giustizia di Dio davanti al male è molto sentito perché non c’è persona che non abbia fatto i conti con una sofferenza ingiusta o innocente. Come Giobbe, la cosa più terribile nella sofferenza è il silenzio di Dio, non avere una risposta, non avere una spiegazione. Questo problema diventa uno spartiacque tra continuare a credere o chiudersi alla fede. Come pastore ho provato a dare delle tracce di risposta, seppur provvisorie e frammentarie, al problema. Sono cosciente però, che si possono dare altre risposte. Se le risposte sono quelle degli amici di Giobbe, nelle persone può nascere un rifiuto e una distanza tra ciò che si percepisce come religione e fede cristiana.
Una partecipazione così sentita, denota un bisogno spirituale, in pratica, una sete di esperienza diretta con Dio. A Giobbe cambia tutto quando passa dal solo “ascoltare” la tradizione su Dio, a “vedere” Dio. Di lì capisce che può mettere la sua fiducia in Lui e che, come dice l’apostolo Paolo ai Romani, “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” e che “nulla ci può separare dal suo amore”. Nulla, per questo possiamo accettare quello che viene dalla vita “come” se venisse da Lui.
N.B: È possibile avere una copia della registrazione della conferenza del 19 gennaio e richiedere il film per la visione, presso il pastore Antonio Di Passa, tel. 0041 81 844 02 43.