Intervista a Ettore Comi, autore del romanzo ambientato in Engadina
Incontro lo scrittore Ettore Comi in una gelida giornata di dicembre. Le strade di Poschiavo sono imbiancate dalla neve e il clima sembra proprio quello descritto nel suo recente romanzo.
Lo trovo mentre fuma una sigaretta, mi saluta ed è visibilmente infreddolito, ma si mostra subito gentile e disponibile. Ci rifugiamo in un bar dove mi parla della sua vita, degli impegni professionali come fotografo, regista, a Roma e Milano, e del suo ritorno in Valmalenco (Sondrio) per stare vicino a suo padre e alla sua fidanzata. Nelle sue terre natìe inizia a scrivere romanzi, l’ultimo dei quali, Mistero al lago di Staz, vede come sfondo gli splendidi scenari alpini della Valposchiavo e dell’Engadina. Me ne parla con un sorriso di soddisfazione.
È contento di questa sua opera?
Sì, molto. I cinque editori a cui ho inviato il testo hanno apprezzato il lavoro e tutti volevano pubblicarlo. Ho scelto, infine, La Carmelina di Ferrara, casa editrice piccola e artigianale, ma raffinata e attenta, che si occuperà anche della promozione.
Ci spieghi di cosa tratta questo libro?
È un romanzo che definirei un noir a tinta rosa. Non è un vero e proprio giallo che comporta un’indagine approfondita da parte della polizia o del commissario, e in cui il colpo di scena iniziale solitamente è un omicidio. Qui c’è invece la figura di un docente universitario di criminologia, Luigi Delle Valli, che proverà a sciogliere il mistero della sparizione di Rossana, una sua studentessa, che lo ha invitato in Engadina. All’inizio, non incontrandola, l’uomo pensa a uno scherzo, a un dispetto, a una propria illusione. Ma che significa tutto ciò? Si chiede, infatti, e non pago si “impunta” in maniera esagerata per sbrogliare questa situazione critica. Credo che sia una storia originale che non usa gli espedienti più banali del libro giallo.

Penso che Luigi Delle Valli sia un personaggio costruito molto bene a livello psicologico e ciò rende ancora più intrigante lo svolgimento della storia e lo scioglimento del mistero. Il lettore continua a chiedersi se è una persona lucida oppure se vive in uno stato di follia. Ci sveli fin da ora chi è Luigi?
Luigi è un uomo concreto, tutto d’un pezzo, fermo nelle proprie convinzioni. È un grande testardo che deve arrivare alla meta a costo di rischiare la propria pelle. È una persona coerente che non si arrende di fronte a nulla, però è anche un gran sognatore. Quando va in slitta in Val Roseg, attorniato dalla corona di cime rosa, si sente in un sogno come il Dottor Zivago, ma la realtà cruda talvolta lo risveglia, prende una bastonata sul collo e subito dopo si rialza più forte. A un certo punto del romanzo, preso dallo sconforto, vuole andarsene da quel mondo di “cupole sfavillanti” e tornare nella mediocrità della sua vita abituale, ma basta un’occhiata e osservare una finestra illuminata nella Villa del mistero, che improvvisamente ritorna la forza per proseguire la sua ricerca indagando con maggior determinazione nei fatti di cronaca, nelle tradizioni, fra i segreti e i pregiudizi delle famiglie locali e nell’arte di Segantini.
Come è nata l’idea di ambientare un romanzo in Engadina?
È un posto che ho sempre amato, ci venivo fin dall’infanzia con i miei genitori. Allora del paesaggio tutto mi sembrava ingigantito e meraviglioso: il treno mi sembrava un’astronave e la tratta del Bernina fino a Sankt Moritz sembrava un percorso infinito. Due anni fa a febbraio, in occasione del Centenario della Ferrovia Retica, io e mio padre abbiamo fatto la stessa gita, purtroppo senza la presenza di mia madre, morta da poco. Naturalmente dopo 40 anni la mia visione del mondo è cambiata completamente, ma mi resi conto che la bellezza di alcuni luoghi mi avevano accompagnato per tutta la vita. Proprio alla stazione di Tirano, alle 7.30 di mattina, in un ambiente straordinario da set cinematografico, ho pensato: “un giorno o l’altro devo scrivere qualcosa di bello su questo luogo”. Poi in quel viaggio ho scattato delle foto e mi sono divertito. Pochi giorni dopo ho rivisto le fotografie scattate e in particolar modo ho notato un corteo di carrozze trainate da cavalli…

Appunto, ha incentrato la storia attorno alla “Schlitteda”, tradizionale manifestazione engadinese di costume che si tiene ogni anno nel mese di gennaio!
Sì, infatti, pochi giorni dopo mi capita di leggere in un giornale – pensa che combinazione – la descrizione della “Schlitteda” che significa slittata. Ho letto avidamente l’articolo e mi è venuta in mente l’idea di prendere questo corteo come riferimento per un invito nei territori engadinesi. Un invito che si rivela un’esca per attirare e coinvolgere una persona con una scusa banale e allo stesso tempo questa esca è il perno attorno al quale ruota tutta la storia.
Molti sono i film e i romanzi che abbinano il mistero all’ambiente boschivo. Anche il suo romanzo fonde questi due aspetti. C’è effettivamente una relazione?
Sì, il chiaro e scuro, la luce e l’ombra del bosco danno il senso del mistero. Infatti ignoro molte volte la neve per concentrarmi sul bosco. Gli alberi escono prepotenti perché racchiudono in sé questa equivocità sensitiva: vedi e non vedi, ti nascondono, ti proteggono ma possono ostacolarti o farti male mentre corri. Nel mio romanzo, in effetti, ci sono inseguimenti e aggressioni nel bosco, quindi posso ben dire che è lo spazio ideale per tenere alta la tensione.
Quali sono brevemente le immagini più rappresentative del Mistero al lago di Staz?
Ho già accennato a “La schlitteda” e sicuramente molto importante è la figura del pittore Segantini. Ho visitato il museo di Sankt Moritz dedicato all’artista e lì mi sono appassionato alle sue pitture. Per la riuscita dell’enigma romanzesco ho preso spunto da un suo quadro inesistente, ossia inventato dalla mia fantasia. Mi rendo conto che ho utilizzato, magari con un po’ di presunzione, il nome di questo grande artista e spero che non mi mandi una maledizione dall’Aldilà, ma non ho fatto altro che rendergli onore.
Poi rilevante è l’Ultima Regina d’Engadina, epiteto che doveva comparire come sottotitolo al romanzo, ma l’editore ha deciso di tralasciare. Ironicamente mi sono immaginato una regina di cuori in Engadina, una sorta di principessa che non è mai esistita a livello storico e legislativo, ma che la tradizione locale ha tramandato nei secoli come una bellissima figura nobile che merita di dominare su tutti e insegnare al popolo.
Forte è anche l’immagine della ferrovia retica…

Esattamente, nel primo capitolo Lei descrive il paesaggio che percorre il trenino rosso del Bernina. Quali impressioni vuole suscitare nel lettore?
Nell’intero lavoro credo di esser riuscito a dare risonanza a certi aspetti paesaggistici. Il trenino rosso è un marchio di bellezza del paesaggio svizzero a differenza di molte ferrovie italiane e questo scarto l’ho voluto suggerire nella scena dello scambio dei treni alla stazione di Tirano. Inoltre mi interessava dare l’impressione d’elevazione usando la scrittura, come nel caso del passaggio al Viadotto di Brusio: «Improvvisamente vidi, davanti a me, la testa del treno che ci affiancava (…) Sembrava che il locomotore si fosse voltato verso di noi per avvolgerci in un impetuoso abbraccio (…) » e così guadagnare quota attraverso questo monumento a spirale. E poi volevo far risaltare l’aspetto vertiginoso del panorama mozzafiato, passando – metaforicamente parlando – dal girone dantesco all’esplosione di luce del paradiso, lassù dove finiscono i boschi. Luigi Delle Valli è talmente catturato e affascinato dalla bellezza del paesaggio che lungo il viaggio non pensa più a Rossana. Tutta la sua attenzione si focalizza sulla novità di questo splendore e ogni scorcio è uno spettacolo meraviglioso ai suoi occhi. Diciamo che questo percorso, che ho cercato di descrivere senza dilungarmi troppo, è la via che innalza il protagonista dalla stantia mediocrità urbana alla bellezza dell’Engadina e nel contempo all’azione di una vita vissuta al massimo.

Ha un legame sentimentale con la Valposchiavo? Quale idea si è fatto di questa località?
Sì, mi sento coinvolto emotivamente con questa splendida valle. Possiedo moltissimi ricordi di famiglia; infatti venivamo spesso a Poschiavo per prendere i gerani e ricordo che mio padre diceva a mia madre che durante l’anzianità gli sarebbe piaciuto essere accolto in Casa Anziani. Io ci verrei a vivere subito. Tante volte la bellezza si coglie da un giardino fiorito, da un bell’orto, dalla pulizia, si capisce dal rispetto verso il proprio territorio, verso la propria cultura e le proprie radici. In Valposchiavo, infatti, c’è tutto questo e si respira pace e armonia. Qui non c’è l’impressione della deflagrazione del territorio stesso come è successo in molte zone italiane, purtroppo devastate.
In Valposchiavo la bellezza è esibita con discrezione. Di Sankt Moritz direi la stessa cosa ma portata a livelli superiori – anche se personalmente preferisco Pontresina – nel senso che è racchiusa in una bolla di straordinarietà come, per esempio, Venezia o Firenze, e tutto è talmente bello che, pur essendo esasperato, non cade nel cattivo gusto.

Le è mai venuto in mente di scrivere qualcosa ambientato a Poschiavo?
L’ho già scritto. È un romanzo che si sviluppa fra Teglio e Poschiavo. Il traino di tutta la storia è la leggenda scritta dal prevosto poschiavino Don Vassella e incentrata sui fatti accaduti nella forra di Cavaglia. E poi ho immaginato un vecchio testo nascosto nella Chiesetta di San Pietro a Poschiavo. E poi… è meglio non svelarvi troppo e lasciare questa storia, ancora per un po’ di tempo, nel mistero.