Piccoli Passi: Internet shopping

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Nelle ultime due settimane la nostra vita quotidiana è cambiata molto. Bar, ristoranti, negozi e saloni di bellezza hanno chiuso i battenti temporaneamente. La popolazione è invitata a rimanere in casa ed uscire solamente quando è necessario. Le strade sono meno trafficate, le vie del paese quasi deserte. Questi cambiamenti, però, non hanno travolto tutti. I rivenditori online rimangono operativi. Per le persone rimaste in casa basta un click per acquistare qualsiasi cosa e ritrovarsela davanti alla porta di casa in un paio di giorni. Semplice, comodo e veloce, lo shopping online è diventato una normalità nel giro di pochi anni. Tuttavia, dietro a prezzi stracciati, tempi di consegna sempre più brevi e pubblicità scintillanti si nasconde una realtà molto meno piacevole. Queste lunghe settimane di quarantena, dove siamo obbligati a rallentare il nostro stile di vita, ci offrono un’occasione per riflettere sul nostro comportamento e cambiare le nostre abitudini.

L’idea di ordinare un prodotto, pagarlo e farselo spedire non è per nulla nuova. Da decenni ormai esistono cataloghi per l’acquisto di mobili, abbigliamento, giocattoli e quant’altro. Internet, però, ha portato questo fenomeno a nuovi livelli, con gravi conseguenze sociali ed ambientali. La prima fra queste consiste nella moria dei piccoli negozi. Giganti come Amazon e Zalando riescono ad offrire prezzi molto più bassi rispetto alla concorrenza e spesso i piccoli commercianti non riescono a competere. Con il passare del tempo sempre più negozi chiudono i battenti, lasciando spazio a multinazionali che dominano il mercato. Negli Stati Uniti, dove il fenomeno è più marcato, si è verificata la chiusura di decine di migliaia di negozi. In Svizzera la situazione è simile: uno studio dell’istituto di ricerche di mercato GfK ha rilevato che, dal 2010 al 2017, nel nostro Paese ben 6’000 punti vendita sono stati chiusi.

Più difficile è stabilire se lo shopping online è più sostenibile rispetto a quello tradizionale. Nel 2017 uno studio dell’università di San Gallo ha cercato di rispondere a questa domanda, tuttavia senza arrivare a risultati esaustivi. Sono infatti molte le variabili che hanno un influsso sull’impatto ambientali dei nostri acquisti. Se si considerano solamente le emissioni causate dai trasporti, il commercio online ha un chiaro vantaggio rispetto allo shopping tradizionale. Ad esempio, per la consegna di un dispositivo elettronico, come un tablet o un laptop, vengono prodotte in media di poco più di 100 grammi di CO2. D’altra parte, se il cliente acquista lo stesso prodotto in un negozio, si generano tra i 318 e i 902 grammi di CO2 a seconda della lunghezza del tragitto percorso.

Ciò che rende lo shopping online meno sostenibile è la possibilità di rispedire gratuitamente gli oggetti che il cliente non desidera acquistare. Un reportage dell’emittente tedesca ZDF ha infatti rivelato che una gran parte dei prodotti reinvitai ad Amazon vengono distrutti dall’azienda. Milioni di tonnellate di prodotti vengono distrutti perché per costa meno buttarle che affittare dei magazzini, sortire i prodotti e rivenderli. È inutile dire che questo è uno spreco inaccettabile.

Oltre al costo ambientale, questo modello aziendale non offre buone condizioni ai lavoratori. La maggior parte dei vestiti acquistati su Zalando vengono smistati nel centro tedesco di Erfurt. In un magazzino della grandezza di 120’000 metri quadrati, 2’000 impiegati percorrono in media dai 15 ai 20 chilometri al giorno per riempire i pacchi delle ordinazioni. In modo da garantire l’efficienza del lavoro, Zalando monitora gli impiegati tramite un software, ammonendo chi lavora troppo lentamente. Tutto questo per un salario di 9 euro all’ora.

Il commercio online, come qualsiasi altra innovazione tecnologica, ha portato molti cambiamenti. Non bisogna dimenticare che molti di essi sono positivi. Grazie allo smercio online di prodotti, alcuni piccoli commercianti riescono ad entrare in contatto con clienti a centinaia di chilometri di distanza e per il cliente è possibile avere una scelta più ampia. Inoltre, grazie al web è più facile trovare un nuovo proprietario per oggetti di seconda mano, un po’ come succede sulla nostra piattaforma Cerco&Offro.

Il commercio online può essere quindi una risorsa per un mondo più sostenibile e solidale, bisogna però cambiare il proprio comportamento. Tutto questo non succederà dall’oggi al domani, ma ognuno di noi può fare qualcosa. Magari, prima di comperare l’ennesimo paio di pantaloni possiamo chiederci se ne abbiamo veramente bisogno e possiamo evitare di ordinare dieci magliette diverse se sappiamo che ne useremo solamente una. Ed infine, quando tutto questo sarà finito, prima di comperare ciò di cui abbiamo bisogno online possiamo fare una passeggiata fino al negozio in paese e vedere se quello che cerchiamo non è già sugli scaffali che ci aspetta.


Daniele Isepponi

3 COMMENTI

  1. La moria dei piccoli negozi di paese è oramai un trend inarrestabile purtroppo. Questo è il dramma più grande. Una parte della storia locale se ne va con le chiusure di questi punti vendita. Se già da decenni i supermercati e centri commerciali gli hanno reso la vita difficile ora l’acquisto online significa per molte piccole realtà il colpo di grazia definitivo. Sono pochi infatti che riescono ad offrire i prodotti su piattaforme digitali.

  2. Il tuo contributo, Daniele, è molto utile per un’ulteriore riflessione.
    Questi nuovi supermercati del web mostrano chiaramente l’effetto collaterale di chi sfrutta le nuove tecnologie senza alcuna etica sociale: una paga di 9 € all’ora ne è la dimostrazione più plastica. A ciò va aggiunto che colossi del web come Amazon, Alibaba, Zalando, Deliveroo, Uber, Airbnb, Booking, ecc., stanno accelerando in modo preoccupante il fenomeno della disintermediazione, a detrimento di una lunga filiera relativa allo smercio dei beni e ai servizi, che dava lavoro a milioni e milioni di persone. Lo stesso fenomeno era già stato osservato a partire dagli anni ’60 del secolo scorso con l’introduzione dei supermercati. In uno studio relativo alla fioritura delle grandi catene di supermercati, da qualche parte ho letto che nella sola Francia sarebbero andati persi centinaia di migliaia di posti di lavoro nel settore della vendita al dettaglio (al netto dei nuovi posti creati). Allo stesso modo Google e Facebook stanno minacciando l’intermediazione di notizie e pubblicità da parte dei mezzi di comunicazione di massa, privandoli di preziose entrate e lasciando senza lavoro molta altra gente. La rivoluzione digitale in atto negli ultimi tre decenni, con monitoraggi permanenti, robotica, algoritmi e scambi di database, se applicata senza compensazioni a favore della dignità dell’essere umano, rischia di resuscitare lo spettro dello sfruttamento della classe operaia ai tempi della rivoluzione industriale. La rivoluzione digitale corre a pari passo con la globalizzazione economica. E senza un’equa e ponderata redistribuzione – a livello globale e fra le diverse classi sociali – della ricchezza offerta da nuove e vecchie tecniche produttive, rischia infatti di incrementare il più bieco egoismo individuale o statale.
    L’attuale crisi pandemica può sicuramente rivelarci anche molti aspetti positivi delle nuove tecnologie digitali: tutti noi – in tempo di distanziamento sociale – siamo felici di poter continuare a sentirci comunità grazie a internet e alle sue varie applicazioni, e di potere svolgere parte del nostro lavoro da casa; anche le scuole possono ovviare a un altrimenti ineluttabile paralisi dell’insegnamento. Ma un’accelerazione dell’utilizzo delle piattaforme digitali, che tenda a modificare il nostro modo di distribuire/acquistare beni e servizi e di interagire, cela anche un pericolo reale per la tenuta dei nostri diritti sociali, politici ed economici.