Tra chiavi e laghi – Sul nome di Poschiavo

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Pubblichiamo il testo di Nicola Balsarini, vincitore del concorso “Giornalisti si diventa” nella categoria 16-25 anni

In tempi recenti la toponomastica locale è apparsa su varie pubblicazioni italofone – indigene e non – quando, all’inizio del nuovo anno, è stato deciso per vie ufficiali che il nome della valle del distretto del Bernina si trasformerà da Val Poschiavo a Valposchiavo, scritto tutto attaccato. Alla base della modifica vi sono diversi fattori e motivazioni. In primis, il cambiamento costituisce un fatto di mera convenienza: nel settore economico e del turismo, la valle viene promossa ormai da anni con il nome Valposchiavo (assieme al marchio omonimo), così come diversi gruppi e associazioni utilizzano questa forma nei propri appellativi. In secondo luogo, la prima forma, Val Poschiavo, oltre ad essere sempre più desueta, socialmente, politicamente e culturalmente possiede un’aurea scomodamente esclusiva: la Valposchiavo, di fatto, appartiene a tutti i suoi abitanti ed accomuna l’intera popolazione, e non rappresenta – e non è rappresentata – dal solo borgo sottostante al Sassalbo. Ora, sarà capitato ai più di chiedersi, almeno per una volta: ma cosa vuol dire, osservato da vicino, il nome Valposchiavo? Sembrerebbe una domanda banale; significa Valle di Poschiavo, ovvero la vallata alpina, compresa tra il Lago Bianco e la dogana di Campocologno. Ma, da ancora più vicino, cosa indica questo nome, Poschiavo? Da dove proviene? Come mai ci chiamiamo valposchiavini? La scelta di scrivere Valposchiavo è indice di una nuova interpretazione del luogo e, di conseguenza, può essere motivo di una maggiore attenzione al significato originale del nome, di una (ri)scoperta di esso. Esplorare l’etimologia e il significato del nome Poschiavo fornisce interessanti informazioni riguardo la storia e la cultura regionale e delle comunità che la vivono. Scopriamo, dunque perché siamo arrivati a chiamarci valposchiavini.

L’etimologia, ovvero la ricerca della storia delle parole, è da sempre stata d’interesse per i popoli. Sapere perché qualcosa si chiami in un certo modo e tentare di scoprire i motivi alla base di tale denominazione ha sempre affascinato l’uomo moderno. Per il pensiero antico, interrogarsi sull’origine di un nome significava chiedersi perché uno specifico individuo si chiamasse in un certo modo, e se ci fosse della verità nel fatto che quell’individuo si chiamasse proprio in tal modo. Non a caso, il criterio di veridicità è insito nella parola etimologia: essa deriva dal greco étymon, ovvero ‘il vero’, con il senso di ‘valore vero della parola’. Fin dall’antichità, l’etimologia rappresenta un’attitudine spontanea; sembra infatti naturale per l’uomo chiedersi il motivo e le ragioni per cui egli si chiami proprio uomo. Una prima risposta a questo quesito l’ha data Socrate: secondo il filosofo greco, l’uomo (ἄνθρωπος, ánthrōpos), «mentre gli altri animali non considerano, non ponderano, non riflettonoattentamente sulle cose che vedono», è denominato in questo modo perché egli invece «ha appena visto», cosa indicata con ópōpe (‘ha visto’), e dunque «si mette a ponderare e a riflettere bene su ciò che ha visto». Di qui, giustamente, secondo Socrate, soltanto l’uomo, tra gli animali, fu chiamato ánthrōpos, cioè anathrôn ha ópōpe, ‘che riflette su ciò che ha visto’. E questa attitudine spontanea alla ricerca del significato dei nomi, dopo Socrate, non sembra aver mai cessato di interrogare l’uomo, tant’è che le decifrazioni più disparate hanno visto la luce. Un esempio è come Marco Terenzio Varrone, letterato e grammatico romano, ha decifrato, nel I secolo a.C., il nome della volpe. Per Varrone, l’animale si chiamerebbe in questo modo perché la volpe «volat pedibus», ovvero perché, dato il suo movimento celere e agile, avrebbe i ‘piedi chevolano’ (in verità il nome volpe deriva da una forma precedente il latino che aveva il significato di ‘faina, gatto’ – senza, dunque, che nessun piede voli).

Risulta pertanto evidente che, nei secoli, il fascino dei nomi abbia spinto l’uomo a decifrarli e a sviscerarne i significati, e ciò è accaduto sicuramente anche ai poschiavini. Anch’essi nel tempo hanno sviluppato le proprie ipotesi sul perché il paese si chiami proprio così, e le interpretazioni portate avanti da diversi autori e personaggi sono più di una e, come Socrate e Varrone, muovono da punti di vista e approcci diversi.

Negli anni Ottanta, sui Quaderni Grigionitaliani, ha preso piede un dialogo – o meglio, un dibattito – tra due appassionati di etimologie che ha avuto come soggetto proprio il nome di Poschiavo. Ripercorriamo dunque questa simpatica – ma, si badi, serissima – querelle etimologica con il nostro paese soggetto.

La tenzone riguardante l’origine e il significato del nome che denomina la vallata vede confrontarsi due cavalieri della lingua. Da una parte Remo Bracchi, religioso, poeta, glottologo, dialettologo, e docente universitario originario della Valdisotto, a sud di Bormio, e dall’altra un signore indigeno, cresciuto, fino ai sette anni, a Poschiavo, che si firma, «con il nome storico ripreso come nome di penna», F. Abis Della Clara (Lanfranco Abis de’ Clari), medico e docente universitario con una spiccata passione per la linguistica e per i significati e la storia delle parole. Ad accompagnare i nostri duellanti vi sono le testimonianze di altri personaggi, minori, se vogliamo, come pastori, presbiteri, storici, avvocati e giornalisti. Ma vediamo come questa troupe è arrivata a definire perché Poschiavo si chiami proprio così e tessiamo le fila di questa epopea linguistica.

Comunemente, si associa Poschiavo al nome chiave. Le due parole all’orecchio paiono simili, e il fatto si spiega bene, per esempio, con lo stemma comunale, che contiene due chiavi incrociate. Partiamo dunque da qui. Questa intuizione popolare, che definiremo “teoria della chiave”, prende piede a partire dalla prima attestazione in assoluto del toponimo, nell’824, quando in un precetto di Lotario I indirizzato al vescovo di Como si legge indicato come Postclave il nostro paese. Questo, secondo Bracchi, il nostro primo paladino, è il primo chiaro tentativo di interpretazione del toponimo, il cui presunto significato è stato ben definito in termini concreti da Francesco Saverio Quadrio, presbitero, scrittore e storico italiano, secondo il quale Poschiavo deriverebbe da Postclavum (una probabile reinterpretazione latina dell’originario Postclave). La ragione, per Quadrio, è la seguente: «Poschiavo, che i Tedeschi appellan Pesclaff, fu per avventura così nominato dall’essere a’ piedi delle Alpi che sono come le Chiavi dell’Italia, Motivo, onde fu questa Valle privilegiata moltissimo da’ Grigioni, poiché occupata l’ebbero; per aver sempre per mezzo d’essa libero il Passo in Valtellina, e in Italia». Ovvero, in chiave metaforica, ma anchegeografica, la nostra regione costituirebbe un passaggio collegante i versanti settentrionali e meridionali delle Alpi, e Poschiavo ne sarebbe la chiave. Alla fine del diciannovesimo secolo la teoria della chiave viene rafforzata dal buon pastore riformato Georg Leonhardi di Brusio, il quale riconosceva nelle due chiavi del comune «la chiave che apre le porte della Germania e quella che apre le porte dell’Italia», conferendo alla nostra vallata, e riprendendo la metafora del ponte alpino tra nord e sud, un già indubbio ruolo strategico di non poca importanza.

Alcuni, non soddisfatti del solo gioco metaforico, hanno cercato di trovare una risposta – o una chiave, per l’appunto – anche nella realtà. Eppure, nel mondo reale – fuori da metafore e stemmi comunali – trovare la famigerata chiave risulta essere un’impresa non da poco. Per alcuni la soluzione del problema si troverebbe a Chiavenna, o meglio, Clavenna, che pure porta la chiave nel proprio stemma, e costituirebbe con ciò un parallelismo capace di sostenere l’ipotesi poschiavina. Secondo Renzo Sertoli Salis, avvocato, docente e giornalista italiano, invece, Poschiavo deriva sì da post clavem, ma significando «dopo la chiave della valle». Trovandosi il nostro borgo dopo la stretta fra Tirano e Brusio, più o meno all’altezza dell’attuale confine italo-svizzero, la chiave secondo Salis risiederebbe lì. Trovata la variante della chiave nella geografia regionale, ecco dunque svelato il mistero del nome di Poschiavo, che si celava, vistosamente, pronto da cogliere, nello stemma del comune. Stabilita la connessione tra il latino clavem e Poschiavo, dunque, «il popolo», scrive Bracchi, «sempre pronto ad accogliere le ragioni del cuore e dell’orecchio, ha senz’altro inserito nel proprio stemma il simbolo di due chiavi incrociate, con gli anelli legati da una catena», e il mistero sembra essere svelato. Sembra: come spesso succede, la storia è troppo semplice per concludersi qui. Infatti, per il dispiacere di alcuni, Quadrio e Salis inclusi, il nome del borgo poco c’entra con le chiavi.

Le ricostruzioni etimologiche e la storia delle parole – e qui si mette il piede in terra un poco più specialistica – devono rispettare alcune regole. Le due più importanti sono quelle del significato e della forma. Un’etimologia, per poter essere considerata attendibile ed essere accolta universalmente, deve avere un significato trasparente, riconoscibile in questo caso nella geografia, nella cultura o nella storia del paese (ad esempio, banalmente Miralago è il paesino che mira verso il lago) e una trafila fonetica verificabile (il Sassalbo altro non era che il saxum album, il ‘sasso bianco’; nel passaggio dal latino all’italiano – è attestato – la -m finale cade, la u passa ad o e x diventa una doppia s).

Ora, se da un lato Poschiavo, anche all’orecchio meno esperto, sembri un inconfutabile derivato da clavem, dall’altro il fattore della trasparenza del significato è fallace. Infatti, spiega Bracchi a riguardo del parallelismo con Chiavenna, il borgo valtellinese resta troppo lontano da Poschiavo per poterne determinare il nome. Inoltre, «fra Chiavenna e Poschiavo vi erano, già ben prima dei Romani, numerose stazioni che a maggior ragione avrebbero meritato questa denominazione», come osserva Abis della Clara. D’altro canto, per quanto riguarda Poschiavo come chiave delle Alpi, l’interpretazione popolare sembra sintomatica di un’eccessiva interpretazione metaforica, anche perché l’attributo di collegamento tra due fronti alpini non è un fattore unico alla vallata del Bernina. Sembra dunque che le chiavi di Poschiavo siano destinate a rimanere imprigionate nello stemma del borgo, e che la quête non possa fermarsi qui. Una nuova spiegazione è necessaria, sia per rigore linguistico che per mera giustizia e rispetto nei confronti di chi pensava di abitare il paese avente le chiavi per la Germania e l’Italia.

Seppur irrispettosa, sia a petto del popolo, sia nei confronti della linguistica, va notata la simpatica intuizione di un cappellano zurighese – Julius Studer, questo il suo nome – che verso la fine dell’Ottocento sostenne, nel suo libro dedicato ai toponimi svizzeri (Ortsnamen der Schweiz, 1896), che Poschiavo derivasse più modestamente da porcclavium, ossia un «Ort bei den Schweinepferchen», ovvero una «località posta accanto ad un recinto all’aperto per maiali». Tralasciando il fatto che, linguisticamente, l’ipotesi fa acqua un po’ da tutte le parti, diversi poschiavini colsero l’interpretazione come una mera mancanza di rispetto: così, ad esempio, lo storico locale Tomaso Semadeni, che ritenne che tale etimologia fosse «tirata in campo per i capelli».

Abbandonate chiavi e porcili, dunque, resta da guardare oltre. E nel cercare nuove ipotesi possiamo scoprire, con piacere, che Poschiavo è stato oggetto d’interesse anche per uno dei più importanti linguisti e dialettologi elvetici del XIX secolo, Carlo Salvioni, nato vicino a noi, a Bellinzona. Agli inizi del Novecento, il ticinese s’inserì, pacato, nel dibattito sul toponimo poschiavino – allora tanto debole – avanzando la seguente ipotesi: Poschiavo deriva da post lacum, ossia ‘dopo il lago’. Difatti, il borgo, visto dal fondovalle, si trova qualche migliaio di metri oltre il bacino d’acqua che divide i due comuni valligiani. Dato l’autorevolezza del linguista e il prestigio dei suoi contributi alla ricerca glottologica, dibattere linguisticamente la derivazione da post lacum sembra un affronto ad un titano; non sorprende perciò il fatto che l’ipotesi delSalvioni sia «universalmente accolta dai linguisti più approfonditi», come nota l’ormai a noi caro Bracchi, promotore e difensore di questa ipotesi. A sostenere l’autorevolezza dell’ipotesi salvioniana c’è anche chi è toccato direttamente dalla disputa etimologica, ovvero il poschiavino Tognina, il quale riconosce che la spiegazione sopracitata è «ineccepibile sia foneticamente, sia oggettivamente». Dal punto di vista del significato, finalmente, l’ipotesi non esige spiegazioni; più chiara di così non potrebbe essere. Post lacum sembra perciò accontentare tutti i requisiti richiesti da un’etimologia rispettabile,e, di diritto e per rigore metodologico, entra nell’arena dei contendenti e spodesta ogni altra proposta sull’origine e sul significato di Poschiavo. Introdottasi silenziosamente, senza destare scalpori o dispiaceri, in un dibattito fioco, l’ipotesi post lacum sembra destinata a presiedere il trono. E lo fa, per decenni, assumendo una propria autorevolezza al punto in cui, sembrerebbe, solo o un colpo di genio o una pazzia potrebbe minacciarne la sovranità.

Ma nel 1982, dopo secoli in cui il dibattito a riguardo del nome di Poschiavo era diventato sempre più fievole, quasi da spegnersi, scende un fulmine a ciel sereno. Entra in scena il nostro antagonista, Abis Della Clara, che, con un’intuizione fino ad allora inedita, muove guerra al Salvioni, dando il via ad uno scontro tra etimologi, vedente da un lato lo stesso Abis Della Clara, qui in veste di innovatore e avversario, e dall’altro il già citato Remo Bracchi, fedele all’interpretazione ormai classica del Salvioni e cavaliere dello stesso. L’ipotesi di Abis Della Clara arriva dopo secoli in cui altre interpretazioni erano sì emerse, ma senza evocare grande scalpore o interesse, e potrebbe far rizzare i capelli ai poschiavini più orgogliosi: Poschiavo deve il suo nome a Brusio! Dichiarazione di guerra non da poco, questa, ma vediamo da vicino l’articolo apparso sui cinquantunesimi Quaderni grigionitaliani.

L’arma con cui Abis Della Clara punta al trono è una clava, ma non quella a cui pensate. Poschiavo, sostiene il nostro antagonista, deriva da postclava e dall’etimo ligure clava, ossia «delta di sassi, cumulo di detriti rocciosi lasciati da una frana, da un dirupamento». Questa clava, sostiene il poschiavino, dal punto di vista geologico e geografico «è riconoscibile nei due (o più) scoscendimenti preistorici che hanno tagliato la valle formando la chiusa di Miralago e, a monte, il lago che si estendeva fino al Borgo, come lo dimostra la natura del terreno piano di Poschiavo. A sud della chiusa, la valle di Golbia, resa ancora più stratta dallo scoscendimento, scende verso la terrazza di Brusio». La clava in questione, dunque, è costituita da un notevole ammasso di massi, indicato anche come la livera e al cèf, che ha bloccato la valle dall’estremità occidentale e visibile dalla strada principale. Così il paese ai piedi del Sassalbo, visto da sud, è «il paese dietro la clava». E per trovarla, questa clava, l’autore dell’articolo (Nota sull’etimologia di «Poschiavo») torna indietro qualche migliaio di anni, fino all’età del bronzo. È in questo periodo, infatti, che, grazie ad «argomenti archeologici», possiamo determinare che «la valle era percorsa almeno sin dall’età del bronzo», e che ospitasse un insediamento «quasi sicuramente anteriore alla conquista romana». Questo a conferma del fatto che clava era il nome dato a Poschiavo dai liguri, popolo tra i più antichi d’Italia, fatto di bellicosi e audaci marinai. Dunque, riassumendo, secondo Abis Della Clara, Poschiavo dovrebbe il suo nome non al latino, ma ad una lingua prelatina, precedente a quella di Cesare. L’ipotesi prelatina, perciò, «ricollega il toponimo con il vistoso e fatidico punto di riferimento geologico, la clava, che è stata all’origine della formazione del lago, poi del pianoro di Poschiavo» – spiega Abis Della Clara.

Un affronto notevole, ma non sufficiente. Infatti, Bracchi, prontissimo alla difesa di post lacum, con pacato professionismo confuta passo per passo l’ipotesi prelatina, spiegando che, linguisticamente, da postclava a Poschiavo i passaggi fonetici sono troppo devianti dalla norma per essere accettabili. Inoltre, la combinazione ibrida di un prefisso latino (post) e di una voce ligure (calva) è un caso più unico che raro, in quanto, nel tempo, le lingue difficilmente sono soggette di simili formazioni. Sembra rimanere perciò, per Abis Della Clara e compagine, solamente l’amaro in bocca. Tuttavia, non è così.

Più ampiamente, sebbene il fatto che Poschiavo derivi da post lacum è inconfutabile, cristallizzato ormai, onore va dato a chi instaura una sana discussione riguardo la nostra vallata. Sospendendo ora i toni tragici, il dibattito tra Bracchi e Abis Della Clara rappresenta un segnale importante per noi. Raffigura un interesse a capire le cose, a sviscerarne i significati, fondamentale per la cultura e l’identità di un paese. Noi, come le parole, viaggiamo nello spazio e nel tempo, cambiando, mutando. Le parole appartengono a tutti – come una valle appartiene a tutti i suoi abitanti – e sono elementi della vita quotidiana. Importante è anche dare attenzione ai fatti quotidiani, alle piccolezze del vivere in una vallata come la nostra, così da tenere acceso il fuoco della discussione culturale e identitaria. In questo modo, esplorando ad esempio le parole con cui ci riferiamo ai nostri luoghi, abbiamo la possibilità di capire il pensiero di chi ci ha preceduti, le visioni e i costumi del luogo, partendo dal fatto di essere poschiavini.

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